Antonio Spadaro La Stampa 14 marzo 2023
Il Papa della complessità
Ha preso la Chiesa in una torre dorata e l’ha impastata come lievito nel mondo. Con la sua visione ha dato sostanza al messaggio spirituale che varrà nel secolo
Il 13 marzo del 2013 un uomo vestito di bianco si è affacciato dalla Loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro. È il nuovo Papa, che si mostra al mondo dopo la rinunzia del suo predecessore. Per tanti quel gesto di Benedetto XVI era stato rivoluzionario, ma per altri forse inaccettabile. Ora appare il suo successore bianco: troppo bianco. Non indossa la mozzetta, la mantellina papale di colore rosso, che è poi il vero colore pontificio, quello che lo mostra come erede dell’imperatore romano.
Il suo nome è Francesco. Il suo primo gesto: chinare il capo in silenzio per ricevere la benedizione del popolo di Dio. La rinuncia di Benedetto e il capo chino di Francesco sono, in fondo, un unico gesto di obbedienza umile e decisa. I due gesti hanno fatto contatto. Lì sì è rotto qualcosa.
Che cosa? Il potere spirituale è spogliato anche simbolicamente dei suoi panni temporali, delle sue corazze, delle sue armature ossidate e arrugginite. L’abito bianco – e senza stemmi – riporta il cristianesimo a Cristo. L’immagine di san Francesco appare in sovraimpressione su quella di san Pietro. Per alcuni questo è tutt’oggi l’ossimoro, lo «scandalo», cioè la pietra d’inciampo nella lettura del pontificato.
L’aureola del santo di Assisi, povero cristiano, coincide con quella del vicario di Cristo. Il papato abbandona per sempre il profilo dell’imperatore romano. Ma pure sfugge al pericolo di identificarsi con don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento. Torna in mente Dante, che nel De Monarchia collega l’«auctoritas» spirituale del papa con la «paternitas».
Solo una Chiesa che, confessando apertamente di non essere la città di Dio in atto, rigetti ogni compromesso nella gestione del potere politico potrà ancora essere ascoltata e valere nel «secolo»: questa l’intuizione lucidissima dei primi istanti del presente Pontificato, dei suoi gesti sobri e familiari, espressa con i simboli.
Due anni dopo, nel 2015, Francesco avrebbe detto ai vescovi Usa che occorre stare attenti a non cadere nella tentazione di scambiare «la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti». Mai bisogna fare «della croce un vessillo di lotte mondane». A dieci anni da quel 13 marzo oggi riconosciamo che lì c’è tutta la diplomazia di Francesco, e il suo modo di affrontare il rapporto con la politica.
Restiamo a quella sera del 13 marzo. Le prime parole di papa Bergoglio sono state: «Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza». Da lì al puzzle della «terza guerra mondiale a pezzi» è stato breve, troppo. Bergoglio, però, aveva capito che il suo pontificato sarebbe stato drammatico. L’ho intuito quando nella mia intervista per La Civiltà Cattolica, a pochi mesi dall’elezione, mi disse che vedeva la Chiesa come un «ospedale da campo dopo la battaglia». Aveva capito il ruolo della Chiesa nel mondo: guarire i feriti, restituire la vita ai moribondi.
Davanti all’alternativa tra tirare un calcio al mondo ormai insalvabile e mettere una toppa e qua e là, l’alternativa di Francesco è una nuova architettura dei rapporti personali e internazionali come li descrive nella “Fratelli tutti”: riscoprire, al di là di ogni miope nazionalismo e spiritualismo, il valore terapeutico della fratellanza nella «famiglia delle nazioni». Un valore che a lui arriva dalla percezione radicata nella fede di essere figli di un unico Padre.
I suoi quaranta viaggi apostolici in 58 nazioni sono serviti anche a questo: a tessere trame e intrecciare fili. I suoi discorsi sulla «pace» a evitare che essa fosse fraintesa con «vittoria». I suoi discorsi sulla guerra per farcela vedere per un attimo con gli occhi delle mamme dei soldati, tutti i soldati. E a far capire che la strada giusta non conduce mai a Yalta, ma a Helsinki.
Se la fratellanza è il basso continuo del discorso bergogliano, in questi dieci anni è apparso chiaro anche il suo approccio radicale al contemporaneo. Francesco è il papa della complessità. Sa che una Chiesa missionaria che dà la priorità assoluta allo sforzo pastorale, non può vivere come una bolla filtrata, una torre dorata, un monastero protetto. Deve impastarsi come lievito nel mondo, deve sollevare la pasta non preservarsi. Essere sale della terra non rinchiudersi in una saliera. E non c’è altro modo che accettare di confrontarsi con la vita che è contraddittoria, complessa, piena di differenze.
La dottrina è al servizio della missione, del lavoro del pastore, non viceversa. A un problema umano non si risponde con un principio astratto – quasi fosse il frutto di un algoritmo – , ma con una saggezza che viene dal discernimento, dalla pazienza, dall’incontro, dalla volontà di voler capire gradualmente, e di farsi capire. In una parola: da un «pensiero aperto» e «incompleto», come mi disse già cinque mesi dopo la sua elezione. E anche per questo il decennale di Francesco non è tempo per chiudere bilanci dal sapore aziendale. E il suo è un pontificato di semi, soprattutto. I frutti maturano.
In fondo anche nel governo della Chiesa Francesco, in questi dieci anni, non ha inseguito un «progetto», cioè un piano teorico e astratto da applicare alla storia. Ha avuto invece un «disegno», cioè un’esperienza spirituale vissuta che prende forma per gradi, e che si sta traducendo in termini concreti, in azione. La sua visione interiore non si è imposta sulla storia cercando di organizzarla secondo le proprie coordinate, ma dialoga con la realtà, si inserisce nella storia, si svolge nel tempo.
La strada che intende compiere è per lui davvero aperta, non è in una road map scritta a priori: il cammino si apre camminando. Questa visione «aperta» dà sostanza a ciò che egli intende per «riforma», che ha sempre nel cuore e non nelle strutture il suo fuoco. Anche per questo ama le chiese dello «zero virgola», dal Marocco alla Mongolia (dove ha imposto berrette cardinalizie): sono enzimi di processi essenziali per il futuro della Chiesa.
In fondo, per questo ha insistito tanto in questi dieci anni per una Chiesa sinodale. Pochi (nessuno?) hanno notato una constatazione di Francesco alla fine del Sinodo per la famiglia del 2015: al di là delle questioni dogmatiche definite dal Magistero, disse, «abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione».
Il Papa non poteva essere più chiaro nel dichiarare la complessità di una Chiesa sempre più diversa al suo interno per sfide, lingue, culture, ma chiamata sempre a una armonia profonda e «cattolica», frutto dello Spirito Santo. Ma senza differenze non ci può essere armonia: solo omologazione e omogeneità.
Spataro, il Papa della complessità, lievito mondiale
Antonio Spadaro La Stampa 14 marzo 2023
Il Papa della complessità
Ha preso la Chiesa in una torre dorata e l’ha impastata come lievito nel mondo. Con la sua visione ha dato sostanza al messaggio spirituale che varrà nel secolo
Il 13 marzo del 2013 un uomo vestito di bianco si è affacciato dalla Loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro. È il nuovo Papa, che si mostra al mondo dopo la rinunzia del suo predecessore. Per tanti quel gesto di Benedetto XVI era stato rivoluzionario, ma per altri forse inaccettabile. Ora appare il suo successore bianco: troppo bianco. Non indossa la mozzetta, la mantellina papale di colore rosso, che è poi il vero colore pontificio, quello che lo mostra come erede dell’imperatore romano.
Il suo nome è Francesco. Il suo primo gesto: chinare il capo in silenzio per ricevere la benedizione del popolo di Dio. La rinuncia di Benedetto e il capo chino di Francesco sono, in fondo, un unico gesto di obbedienza umile e decisa. I due gesti hanno fatto contatto. Lì sì è rotto qualcosa.
Che cosa? Il potere spirituale è spogliato anche simbolicamente dei suoi panni temporali, delle sue corazze, delle sue armature ossidate e arrugginite. L’abito bianco – e senza stemmi – riporta il cristianesimo a Cristo. L’immagine di san Francesco appare in sovraimpressione su quella di san Pietro. Per alcuni questo è tutt’oggi l’ossimoro, lo «scandalo», cioè la pietra d’inciampo nella lettura del pontificato.
L’aureola del santo di Assisi, povero cristiano, coincide con quella del vicario di Cristo. Il papato abbandona per sempre il profilo dell’imperatore romano. Ma pure sfugge al pericolo di identificarsi con don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento. Torna in mente Dante, che nel De Monarchia collega l’«auctoritas» spirituale del papa con la «paternitas».
Solo una Chiesa che, confessando apertamente di non essere la città di Dio in atto, rigetti ogni compromesso nella gestione del potere politico potrà ancora essere ascoltata e valere nel «secolo»: questa l’intuizione lucidissima dei primi istanti del presente Pontificato, dei suoi gesti sobri e familiari, espressa con i simboli.
Due anni dopo, nel 2015, Francesco avrebbe detto ai vescovi Usa che occorre stare attenti a non cadere nella tentazione di scambiare «la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti». Mai bisogna fare «della croce un vessillo di lotte mondane». A dieci anni da quel 13 marzo oggi riconosciamo che lì c’è tutta la diplomazia di Francesco, e il suo modo di affrontare il rapporto con la politica.
Restiamo a quella sera del 13 marzo. Le prime parole di papa Bergoglio sono state: «Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza». Da lì al puzzle della «terza guerra mondiale a pezzi» è stato breve, troppo. Bergoglio, però, aveva capito che il suo pontificato sarebbe stato drammatico. L’ho intuito quando nella mia intervista per La Civiltà Cattolica, a pochi mesi dall’elezione, mi disse che vedeva la Chiesa come un «ospedale da campo dopo la battaglia». Aveva capito il ruolo della Chiesa nel mondo: guarire i feriti, restituire la vita ai moribondi.
Davanti all’alternativa tra tirare un calcio al mondo ormai insalvabile e mettere una toppa e qua e là, l’alternativa di Francesco è una nuova architettura dei rapporti personali e internazionali come li descrive nella “Fratelli tutti”: riscoprire, al di là di ogni miope nazionalismo e spiritualismo, il valore terapeutico della fratellanza nella «famiglia delle nazioni». Un valore che a lui arriva dalla percezione radicata nella fede di essere figli di un unico Padre.
I suoi quaranta viaggi apostolici in 58 nazioni sono serviti anche a questo: a tessere trame e intrecciare fili. I suoi discorsi sulla «pace» a evitare che essa fosse fraintesa con «vittoria». I suoi discorsi sulla guerra per farcela vedere per un attimo con gli occhi delle mamme dei soldati, tutti i soldati. E a far capire che la strada giusta non conduce mai a Yalta, ma a Helsinki.
Se la fratellanza è il basso continuo del discorso bergogliano, in questi dieci anni è apparso chiaro anche il suo approccio radicale al contemporaneo. Francesco è il papa della complessità. Sa che una Chiesa missionaria che dà la priorità assoluta allo sforzo pastorale, non può vivere come una bolla filtrata, una torre dorata, un monastero protetto. Deve impastarsi come lievito nel mondo, deve sollevare la pasta non preservarsi. Essere sale della terra non rinchiudersi in una saliera. E non c’è altro modo che accettare di confrontarsi con la vita che è contraddittoria, complessa, piena di differenze.
La dottrina è al servizio della missione, del lavoro del pastore, non viceversa. A un problema umano non si risponde con un principio astratto – quasi fosse il frutto di un algoritmo – , ma con una saggezza che viene dal discernimento, dalla pazienza, dall’incontro, dalla volontà di voler capire gradualmente, e di farsi capire. In una parola: da un «pensiero aperto» e «incompleto», come mi disse già cinque mesi dopo la sua elezione. E anche per questo il decennale di Francesco non è tempo per chiudere bilanci dal sapore aziendale. E il suo è un pontificato di semi, soprattutto. I frutti maturano.
In fondo anche nel governo della Chiesa Francesco, in questi dieci anni, non ha inseguito un «progetto», cioè un piano teorico e astratto da applicare alla storia. Ha avuto invece un «disegno», cioè un’esperienza spirituale vissuta che prende forma per gradi, e che si sta traducendo in termini concreti, in azione. La sua visione interiore non si è imposta sulla storia cercando di organizzarla secondo le proprie coordinate, ma dialoga con la realtà, si inserisce nella storia, si svolge nel tempo.
La strada che intende compiere è per lui davvero aperta, non è in una road map scritta a priori: il cammino si apre camminando. Questa visione «aperta» dà sostanza a ciò che egli intende per «riforma», che ha sempre nel cuore e non nelle strutture il suo fuoco. Anche per questo ama le chiese dello «zero virgola», dal Marocco alla Mongolia (dove ha imposto berrette cardinalizie): sono enzimi di processi essenziali per il futuro della Chiesa.
In fondo, per questo ha insistito tanto in questi dieci anni per una Chiesa sinodale. Pochi (nessuno?) hanno notato una constatazione di Francesco alla fine del Sinodo per la famiglia del 2015: al di là delle questioni dogmatiche definite dal Magistero, disse, «abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione».
Il Papa non poteva essere più chiaro nel dichiarare la complessità di una Chiesa sempre più diversa al suo interno per sfide, lingue, culture, ma chiamata sempre a una armonia profonda e «cattolica», frutto dello Spirito Santo. Ma senza differenze non ci può essere armonia: solo omologazione e omogeneità.