Giuseppe Sarcina Corriere della Sera 19 marzo 2023
Strada negoziale in salita. Biden preme per l’offensiva
Il presidente Usa: «Crimini evidenti». Tutti attendono la «sfinge» Xi
In teoria il mandato di cattura spiccato contro Vladimir Putin dalla Corte penale internazionale dell’Aia cambierebbe poco per le prospettive del negoziato. Né gli Stati Uniti, né la Russia e nemmeno la Cina hanno firmato il Trattato che istituisce il Tribunale sovranazionale (Conferenza di Roma, 1998). Sul piano strettamente giuridico, quindi, sarebbe ancora possibile far sedere intorno allo stesso tavolo Joe Biden, Putin e Xi Jinping. Forse ci potrebbe essere anche Volodymyr Zelensky, visto che l’Ucraina ha sottoscritto l’intesa, ma non l’ha ratificata. I Paesi che accettano la giurisdizione della Corte sono 123, ma all’appello mancano, tra gli altri, India, Indonesia, Arabia Saudita, Algeria. Tutti luoghi più o meno candidabili a ospitare un ipotetico summit per la pace. Il punto è che non stiamo andando in questa direzione.
L’altro ieri il procuratore capo della Corte dell’Aia, Karim Khan, di fatto ha accostato il crimine di guerra addebitato a Putin, cioè la deportazione dei bambini ucraini, alle crudeltà dei nazisti. I leader dell’Est Europa hanno adottato lo stesso metro di giudizio ormai da molti mesi: Putin è come Hitler, impossibile trattare. Lo stesso Biden ieri ha detto ai giornalisti: «L’incriminazione di Putin è giustificata, i crimini sono evidenti, anche se noi non riconosciamo la Corte».
L’iniziativa dell’Aia rafforza una dinamica già molto chiara. Con il passare del tempo la linea dura dei polacchi e dei baltici è rimasta l’unica visibile, almeno in Europa. Dalla scoperta degli eccidi di Bucha in poi (1 aprile 2022), si è affievolita, fino a spegnersi, la spinta franco-tedesca per tenere aperto il filo del dialogo con il Cremlino.
Poi, naturalmente, ci sono gli Stati Uniti. Joe Biden ha fornito le armi a Zelensky con gradualità, cercando di evitare pericolose escalation del conflitto e sperando che Putin si convincesse a fermarsi. Nello stesso tempo la Casa Bianca non ha mai avanzato una proposta diplomatica concreta. Non perché non ne avesse, ma per non fare esplodere la divisione in Europa tra gli oltranzisti dell’Est e gli «aperturisti» dell’Ovest. Ancora il 2 marzo scorso, il Segretario di Stato Antony Blinken aveva agganciato il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, a margine del G20 a Nuova Delhi. Forse un ultimo appello, se non altro per una tregua. Respinto.
Dopodiché è arrivata la svolta radicale. Mercoledì 15 marzo, il ministro della Difesa Lloyd Austin ha concluso la riunione con i colleghi degli oltre 50 Paesi che forniscono armi a Kiev con queste parole: «Non c’è più tempo da perdere. Stiamo mettendo insieme le armi e gli strumenti militari che consentiranno agli ucraini di riconquistare il territorio perduto». Stando alle indiscrezioni, la controffensiva dovrebbe scattare a maggio.
I generali del Pentagono ritengono che l’Armata putiniana e le milizie mercenarie della Wagner siano allo stremo e a corto di munizioni. Possono essere battute, se non travolte, a patto di produrre uno sforzo aggiuntivo e di fare presto.
A questo punto, nel deserto della diplomazia, resta in campo solo il piano di Xi Jinping. Domani il presidente cinese sarà a Mosca, per un faccia a faccia con Putin dagli esiti oggettivamente imprevedibili. Gli americani hanno già stroncato il documento in «12 punti», perché, sostengono, è smentito dal sostegno economico di Xi Jinping alla Russia. Zelensky, però, appare più prudente. Potrebbe essere l’ultima possibilità per la trattativa, prima della «controffensiva» annunciata da Washington.