Annalisa Cuzzocrea La Stampa 16 marzo 2023
Le duellanti. Botta e risposta tra Elly Schlein e Giorgia Meloni
E la premier frena i brusii della maggioranza. La leader del Pd attacca: «Non può nascondersi, lei ora è al governo. Ci sono io all’opposizione»
Elly Schlein è un avversario che Giorgia Meloni non sa ancora bene dove colpire. Non la prende di petto, non la schernisce, non trascende nei toni. È come se la stesse ancora studiando. Come se riconoscesse – nella prima leader che si trova di fronte – un oppositore temibile. E per questo, da rispettare.
Il question time dedicato alla presidente del Consiglio è appena finito. L’aula si sta svuotando velocemente. I cronisti sono già quasi tutti usciti dalla tribuna. Elly Schlein rimette gli appunti e il tetrapak con l’acqua nello zaino. Alza lo sguardo, incrocia quello della premier che sta per uscire, le fa un cenno di saluto. Meloni ricambia, esita, torna indietro e le va incontro per una rapida stretta di mano. Chi sperava nel catfighting, nei colpi sotto la cintura, in una riedizione stanca dell’ennesimo Eva contro Eva è stato costretto a riporre la penna nel taschino annotando, magari, «che noia».
Perché è vero, Schlein e Meloni hanno recitato ognuna la sua parte. La prima, la giacca di un rosa talmente chiaro da sembrare bianca, ha interrogato la presidente del Consiglio sul precariato, il lavoro povero, il salario minimo: «Lei lo ha definito uno specchietto per le allodole, vada a dirlo a chi ha salari da fame!». La seconda ha subito attaccato: «Sono felice che il Pd ammetta che il nostro Paese è l’unico in cui negli ultimi 20 anni il salario annuale è diminuito e che è diminuita la quota del Pil dedicata agli stipendi. Chi ha governato finora ha reso più poveri i lavoratori italiani e ora questo governo deve invertire la rotta».
Sbaglia la mira. Perché Schlein non ha fatto parte di quei governi e neanche del Pd che ne è stato protagonista. Perché ha vinto le primarie con un programma di ripensamento radicale proprio sui temi del lavoro, ed è per questo che ha deciso di renderli protagonisti ieri in aula. Per non essere etichettata come la segretaria «dei migranti e dei diritti».
I banchi di destra applaudono furiosi. Meloni continua spiegando che il rischio è che il salario minimo peggiori le cose, che inneschi una gara al ribasso. Qui è il Pd a rumoreggiare. Peppe Provenzano fa un gesto plateale – muovendo le mani giunte avanti e indietro – come per chiedere: «Ma che dice?». Meloni, invece di affondare, tende una mano: sui congedi parentali paritari evocati da Schlein «perché la denatalità è soprattutto una questione di squilibri nel lavoro di cura», la premier dice: «Abbiamo fatto il possibile». E promette: «Sul tema delle madri lavoratrici sono sempre disponibile a confrontarmi e parlare».
Ma la segretaria pd non ha alcuna intenzione di raccogliere. È stata tutto il tempo ad ascoltare, seria, scorrendo continuamente gli appunti che tiene nascosti sotto il banco. Non fa sorrisini sostenuti, non cerca l’approvazione di chi le è accanto come fa l’avversaria con i vicepremier Salvini e Tajani, entrambi al suo fianco.
Quando tocca di nuovo a lei e attacca con la formula di rito, «Le sue risposte non ci soddisfano», dai banchi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia cominciano a rumoreggiare, addirittura a ridacchiare per un problema col microfono. Una deputata urla: «Si è già scritta tutto!». Meloni li ferma, fa segno di stare calmi, ascolta. Ed è nella replica – ma è sempre così – che Schlein tira fuori quel che voleva. «Non può nascondersi dietro a un dito, presidente. Lei ora è al governo. Ci sono io all’opposizione». Non dice noi, la leader dem. Dimentica per un attimo la retorica delle compagne e i compagni, della comunità, delle opposizioni che devono marciare unite.
Dice «io», e la voce un po’ trema nel salire. Rimette dritto il tavolo che Meloni ha cercato per tutto il tempo del question time di ribaltare, attaccando sulle regole europee, come se non fosse un suo problema doverle ricontrattare con Bruxelles. Rinfacciando il Superbonus ai 5 stelle, che le avevano chiesto tutt’altro. Replicando qualcosa come «parlateci degli scafisti», alle puntuali domande di Riccardo Magi – di + Europa – sui naufragi nel Mediterraneo di cui il governo vorrebbe solo smettere di parlare.
«Non è più tempo di dare responsabilità agli altri. Lavoro e povero non devono più stare nella stessa frase. Fratelli d’Italia in Ue ha detto sì all’introduzione del salario minimo, adesso ve lo state rimangiando». Meloni non si tiene, allarga le braccia come a dire «E vabbè». L’altra va giù dura con i numeri, come lo studente che sa la lezione a memoria e non vede l’ora di dirla d’un fiato.
Dai banchi di destra sale il frastuono, ma non copre l’affondo: «Questa destra è ossessionata dall’immigrazione, ma non vede l’emigrazione di tanti giovani costretti ad andarsi a costruire un futuro altrove. Voi pensate ai rave, ai condoni, a togliere diritti alle figlie e ai figli delle famiglie omogenitoriali. Sul piano sociale questa destra è racchiusa in tre parole: incapacità, approssimazione, insensibilità».
È guerra di applausi dem contro i buu della destra. E qui sta il limite dell’intera operazione. Necessario, forse, perché chi sta ricostruendo un’identità non può pensare a non pestare i piedi agli altri. Ma ieri due cose sono apparse nitide: Schlein è il capo del Pd. Fa il capo con una postura che altri prima di lei non avevano usato. Si muove come tale in aula, alla buvette, in Transatlantico (con buona pace dei cronisti – maschi – che osservano infastiditi il codazzo che le si fa intorno).
Le opposizioni però restano divise e questo, alla lunga, è un problema. Neanche su un tema come il salario minimo, che i 5 stelle si sono sentiti scippare Schlein è riuscita a strappare un applauso dai banchi che non è lei a guidare. Il Movimento è rimasto spiazzato, Conte ha twittato di aver depositato lui la prima proposta di legge sul salario minimo poco prima che la seduta cominciasse, e serve a poco che la segretaria abbia ricordato come su questo ci siano proposte di tutte le opposizioni, da cui bisognerà partire.
Così come serve a poco che lei abbia applaudito l’intervento accorato del M5S Silvestri dopo l’attacco di Meloni, arrivata – senza ragione – a mimare il «gratuitamente» di Giuseppe Conte, in un intervento che più che una risposta era uno sfottò. Il Movimento guarda Schlein da fuori come una concorrente. L’ex premier sembra quasi considerarla un’usurpatrice. Marattin, di Italia Viva, a chi gli fa ironicamente notare di aver fatto un intervento quasi da opposizione, risponde: «Tra Schlein e Meloni, vado a sciare». E quindi c’era più di un capo, in aula, ieri. Ma non ancora un’opposizione capace di lasciare il segno.
Le duellanti. Botta e risposta tra Elly Schlein e Giorgia Meloni
Annalisa Cuzzocrea La Stampa 16 marzo 2023
Le duellanti. Botta e risposta tra Elly Schlein e Giorgia Meloni
E la premier frena i brusii della maggioranza. La leader del Pd attacca: «Non può nascondersi, lei ora è al governo. Ci sono io all’opposizione»
Elly Schlein è un avversario che Giorgia Meloni non sa ancora bene dove colpire. Non la prende di petto, non la schernisce, non trascende nei toni. È come se la stesse ancora studiando. Come se riconoscesse – nella prima leader che si trova di fronte – un oppositore temibile. E per questo, da rispettare.
Il question time dedicato alla presidente del Consiglio è appena finito. L’aula si sta svuotando velocemente. I cronisti sono già quasi tutti usciti dalla tribuna. Elly Schlein rimette gli appunti e il tetrapak con l’acqua nello zaino. Alza lo sguardo, incrocia quello della premier che sta per uscire, le fa un cenno di saluto. Meloni ricambia, esita, torna indietro e le va incontro per una rapida stretta di mano. Chi sperava nel catfighting, nei colpi sotto la cintura, in una riedizione stanca dell’ennesimo Eva contro Eva è stato costretto a riporre la penna nel taschino annotando, magari, «che noia».
Perché è vero, Schlein e Meloni hanno recitato ognuna la sua parte. La prima, la giacca di un rosa talmente chiaro da sembrare bianca, ha interrogato la presidente del Consiglio sul precariato, il lavoro povero, il salario minimo: «Lei lo ha definito uno specchietto per le allodole, vada a dirlo a chi ha salari da fame!». La seconda ha subito attaccato: «Sono felice che il Pd ammetta che il nostro Paese è l’unico in cui negli ultimi 20 anni il salario annuale è diminuito e che è diminuita la quota del Pil dedicata agli stipendi. Chi ha governato finora ha reso più poveri i lavoratori italiani e ora questo governo deve invertire la rotta».
Sbaglia la mira. Perché Schlein non ha fatto parte di quei governi e neanche del Pd che ne è stato protagonista. Perché ha vinto le primarie con un programma di ripensamento radicale proprio sui temi del lavoro, ed è per questo che ha deciso di renderli protagonisti ieri in aula. Per non essere etichettata come la segretaria «dei migranti e dei diritti».
I banchi di destra applaudono furiosi. Meloni continua spiegando che il rischio è che il salario minimo peggiori le cose, che inneschi una gara al ribasso. Qui è il Pd a rumoreggiare. Peppe Provenzano fa un gesto plateale – muovendo le mani giunte avanti e indietro – come per chiedere: «Ma che dice?». Meloni, invece di affondare, tende una mano: sui congedi parentali paritari evocati da Schlein «perché la denatalità è soprattutto una questione di squilibri nel lavoro di cura», la premier dice: «Abbiamo fatto il possibile». E promette: «Sul tema delle madri lavoratrici sono sempre disponibile a confrontarmi e parlare».
Ma la segretaria pd non ha alcuna intenzione di raccogliere. È stata tutto il tempo ad ascoltare, seria, scorrendo continuamente gli appunti che tiene nascosti sotto il banco. Non fa sorrisini sostenuti, non cerca l’approvazione di chi le è accanto come fa l’avversaria con i vicepremier Salvini e Tajani, entrambi al suo fianco.
Quando tocca di nuovo a lei e attacca con la formula di rito, «Le sue risposte non ci soddisfano», dai banchi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia cominciano a rumoreggiare, addirittura a ridacchiare per un problema col microfono. Una deputata urla: «Si è già scritta tutto!». Meloni li ferma, fa segno di stare calmi, ascolta. Ed è nella replica – ma è sempre così – che Schlein tira fuori quel che voleva. «Non può nascondersi dietro a un dito, presidente. Lei ora è al governo. Ci sono io all’opposizione». Non dice noi, la leader dem. Dimentica per un attimo la retorica delle compagne e i compagni, della comunità, delle opposizioni che devono marciare unite.
Dice «io», e la voce un po’ trema nel salire. Rimette dritto il tavolo che Meloni ha cercato per tutto il tempo del question time di ribaltare, attaccando sulle regole europee, come se non fosse un suo problema doverle ricontrattare con Bruxelles. Rinfacciando il Superbonus ai 5 stelle, che le avevano chiesto tutt’altro. Replicando qualcosa come «parlateci degli scafisti», alle puntuali domande di Riccardo Magi – di + Europa – sui naufragi nel Mediterraneo di cui il governo vorrebbe solo smettere di parlare.
«Non è più tempo di dare responsabilità agli altri. Lavoro e povero non devono più stare nella stessa frase. Fratelli d’Italia in Ue ha detto sì all’introduzione del salario minimo, adesso ve lo state rimangiando». Meloni non si tiene, allarga le braccia come a dire «E vabbè». L’altra va giù dura con i numeri, come lo studente che sa la lezione a memoria e non vede l’ora di dirla d’un fiato.
Dai banchi di destra sale il frastuono, ma non copre l’affondo: «Questa destra è ossessionata dall’immigrazione, ma non vede l’emigrazione di tanti giovani costretti ad andarsi a costruire un futuro altrove. Voi pensate ai rave, ai condoni, a togliere diritti alle figlie e ai figli delle famiglie omogenitoriali. Sul piano sociale questa destra è racchiusa in tre parole: incapacità, approssimazione, insensibilità».
È guerra di applausi dem contro i buu della destra. E qui sta il limite dell’intera operazione. Necessario, forse, perché chi sta ricostruendo un’identità non può pensare a non pestare i piedi agli altri. Ma ieri due cose sono apparse nitide: Schlein è il capo del Pd. Fa il capo con una postura che altri prima di lei non avevano usato. Si muove come tale in aula, alla buvette, in Transatlantico (con buona pace dei cronisti – maschi – che osservano infastiditi il codazzo che le si fa intorno).
Le opposizioni però restano divise e questo, alla lunga, è un problema. Neanche su un tema come il salario minimo, che i 5 stelle si sono sentiti scippare Schlein è riuscita a strappare un applauso dai banchi che non è lei a guidare. Il Movimento è rimasto spiazzato, Conte ha twittato di aver depositato lui la prima proposta di legge sul salario minimo poco prima che la seduta cominciasse, e serve a poco che la segretaria abbia ricordato come su questo ci siano proposte di tutte le opposizioni, da cui bisognerà partire.
Così come serve a poco che lei abbia applaudito l’intervento accorato del M5S Silvestri dopo l’attacco di Meloni, arrivata – senza ragione – a mimare il «gratuitamente» di Giuseppe Conte, in un intervento che più che una risposta era uno sfottò. Il Movimento guarda Schlein da fuori come una concorrente. L’ex premier sembra quasi considerarla un’usurpatrice. Marattin, di Italia Viva, a chi gli fa ironicamente notare di aver fatto un intervento quasi da opposizione, risponde: «Tra Schlein e Meloni, vado a sciare». E quindi c’era più di un capo, in aula, ieri. Ma non ancora un’opposizione capace di lasciare il segno.