Formica, “il Fisco di un governo debole, delle cento corporazioni”. Non si farà mai

Fabio Martini La Stampa 18 marzo 2023
Rino Formica: “Questa riforma del fisco non vedrà mai la luce. Meloni vuole accontentare tutti e si perde a inseguire micro-corporazioni”
L’ex ministro socialista: «Il governo usi la tecnologia se vuole scovare gli evasori»


Rino Formica risponde al telefono e dice che gli dispiace, non può trattenersi, perché «sto per seguire alla radio l’intervento integrale della presidente del Consiglio al congresso della Cgil».

Formica va «per i 97», come ricorda lui e dire che si tiene aggiornato, sarebbe persino riduttivo. E infatti, appena concluso l’intervento di Giorgia Meloni, Rino Formica – tra le altre cose è stato anche ministro socialista delle Finanze – accetta di passare al setaccio la riforma del fisco approntata dal governo e il suo esordio è questo: «Cos’è il fisco amico del quale parlano? Loro pensano ad un fisco col quale si trattano quotidianamente le possibili convergenze. Col concordato preventivo si reintroduce un sistema preistorico, si torna alle trattative che si facevano 60 o 70 anni anni fa nei Comuni con i commercianti, con le famiglie….».

L’impianto della riforma si intuisce, ma ci sono “pezzi” mancanti, che possono portare da una parte e anche in direzione opposta?

«Una riforma all’insegna dell’”avanti, c’è pane per tutti”, ognuno ha la sua riduzione: una fanfaronata dai contorni vaghi. E la vaghezza serve a creare una condizione nella quale tutti possano tenersi le mani libere visto che per approvare, eventualmente, la riforma serviranno anni e anni. Sarà un passatempo per dimostrare che il Parlamento fa qualcosa».

Però alcune novità sono scritte nere su bianco, in alcuni casi non possono produrre anche utili semplificazioni?

«Chiedo: fateci l’elenco delle agevolazioni fiscali in atto. Costituite subito una struttura per l’incrocio di tutti i dati. Varate una norma di chiusura contro l’elusione fiscale, che ha fatto ricchi molti studi professionali e agevolato l’evasione fiscale dei potenti».

Politicamente parlando, che riforma è?

«La riforma vaga e futuribile di una maggioranza debole, davvero molto debole: si perdono dietro a micro-corporazioni. Cercano di contentare tutti: qualche migliaio di concessionari di spiaggia, aziende piccole e grandi. Non puoi toccare neppure i concessionari dei tavolini da bar. E d’altra parte un sistema fiscale è lo specchio degli equilibri politici e sociali di un Paese. Non è casuale che la presidente Meloni si sia richiamata all’anniversario dell’Unità italiana…».

Che c’entra?

«C’entra. Quando si realizzò il grande sogno dei patrioti – bandiera unica, inno unico, confini unici – si adottò lo Statuto Albertino che rifletteva gli equilibri di una società diseguale e dunque la norma fiscale era ispirata al criterio della proporzionalità del prelievo. Non è certo un caso che nella Costituente fu rovesciata quella parte dello Statuto e venne affermato il principio della progressività».

Uno dei capisaldi della riforma è il concordato preventivo: solo una scorciatoia o può incoraggiare il contribuente recalcitrante?

«È una forma di primitivismo fiscale!».

Uno dei suoi aforismi? L’irresistibile amore per la battuta?

«No. Siamo entrati in una fase che somiglia ai vecchi accordi che si facevano nei Comuni per esempio dai commercianti che trattavano come categoria un abbassamento daziario per le imposte di consumo, mentre i singoli trattavano l’imposta di famiglia con un concordato preventivo che valeva per gli anni successivi…».

Queste modalità sono soltanto una scorciatoia per gli evasori e per i furbi?

«Queste modalità dal punto di vista tecnologico sono anti-storiche. Oggi esiste la possibilità di incrociare i dati. Ma il punto più debole è un altro: nella riforma fiscale del 1974, tra l’altro si abolì l’Ice, andando verso l’Iva ma non venne previsto una copertura transitoria da un regime all’altro, Alcuni anni dopo il Dipartimento delle politiche tributarie dell’Università di Pavia, un’eccellenza nel settore, dimostrò che allora si era aperta una voragine, la vera palla di neve che aprì la slavina al debito abnorme».

La presidente del Consiglio ha spiegato al congresso della Cgil, senza arretramenti o compiacenze, la sua riforma del fisco e se ne è andata persino con un mezzo applauso: bravi sia l’ospite che i padroni di casa?

«Ho l’impressione che si sia recitata una commedia. La presidente Meloni ha rinunciato ad accanirsi contro il sindacato che negli ultimi 30 anni ha faticato a difendere salari e diritti. Ha fatto solo un accenno, come per dire: attenti a non attaccarmi, altrimenti… E infatti anche la Cgil ha rinunciato ad attaccare il governo e abbiamo scoperto che il dialogo serve per poter ascoltare e successivamente per essere ascoltati».

Un dovere minimo di ospitalità, non trova?

«Il segretario della Cgil aveva aperto il congresso, annunciando: “Dovranno ritirare la riforma fiscale”. Abbiamo assistito ad un sermone di buona educazione sulla ospitalità da parte di Landini. Alla fine non si capisce se l’assemblea abbia recepito il sermone, rispettando l’ordine gerarchico, oppure se quella sia un’assemblea di rassegnati. E quanto ai trenta che hanno lasciato la sala, non si è capito se l’abbiano fatto, perché sono incorreggibili maleducati o se siano gli ultimi indignati del sindacato. Ad una trattativa si va per esprimere le proprie posizioni e se non c’è l’accordo, decide la forza».

 

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