Voto Usa: da modello a farsa

Limes 10/12/2020 a cura di Dario Fabbri
E con Trump il rito delle presidenziali si svelò grottesco

Creato difettoso eppure da decenni elevato a modello universale, in questi giorni il sistema elettorale americano manifesta platealmente la propria inconsistenza. Costruito per allontanare la popolazione dalla politica ma raccontato come massimo strumento di democrazia, mostra le sue spettacolari falle. Con gravi rischi per la propaganda della superpotenza, incredibilmente centrata sull’esibizione del proprio regime.

Alla fine del Settecento i leggendari padri fondatori imposero consistenti diaframmi tra i cittadini e le urne – oltre all’iniziale esclusione di afroamericani e donne.

Le elezioni presidenziali (e non solo) furono fissate di martedì, giorno lavorativo, celebrate Stato per Stato anziché al livello nazionale. Agli aventi diritto fu imposto di registrarsi in anticipo, la certificazione del voto delegata alle amministrazioni statali, con la possibilità di fornirla entro un mese. La materiale scelta del presidente venne affidata ai grandi elettori riuniti in semiclandestinità nelle capitali federate il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre. La transizione tra gabinetti nazionali spalmata su quasi tre mesi, dal primo martedì dopo il primo lunedì di novembre al 20 gennaio, inizialmente addirittura su quattro mesi (fino al 1933 il giorno di insediamento era il 4 marzo).

Smaccati bizantinismi, cui nel tempo si aggiunsero ulteriori storture. Per stemperare l’attesa dello spoglio ufficiale, nel 1848 fu accettato che le agenzie di stampa decretassero il vincitore nei singoli Stati, prerogativa tuttora appannaggio dei media. Durante la guerra di secessione venne introdotto il voto per posta, metodo che cancella la segretezza delle preferenze, assai in voga ai tempi del coronavirus.

I costituenti intendevano sminuire la politica, ritenuta perniciosa perché capace di scatenare passioni incontrollate, di distrarre la traiettoria della nazione. Nel concreto, intendevano permettere eventuali aggiustamenti del voto durante il periodo di interregno, scongiurare che l’alternarsi delle classi dirigenti provocasse violenze, impedire alla cittadinanza di percepirsi oltremodo legata al presidente.

Estranei ai meccanismi elettorali, gli americani dovevano dedicarsi all’accrescimento della potenza, alla costruzione dell’epopea nazionale. L’etichetta anglosassone, centrata su disciplina e decoro, avrebbe persuaso i candidati a tollerare elezioni scientificamente fallaci.

Soltanto tra le due guerre mondiali l’architettura elettorale assurse a vettore della propaganda imperiale. Allora gli Stati Uniti divennero canone democratico da diffondere per il mondo, impero benevolo per struttura istituzionale, impegnato a migliorare l’esistenza degli umani.

Scivolosa distanza tra finzione e realtà conservata per decenni, nonostante brogli denunciati e provati, grazie al medio distacco della popolazione e al rispetto delle (informali) regole da parte dei politici. Prima d’essere esibito nella sua ambiguità da Donald Trump.

A un passo dalla sconfitta, nelle ultime settimane il newyorkese ha confermato il proprio ruolo di fool shakespeariano 1. Per mantenersi al potere, s’è scagliato contro gli intangibili aspetti del voto americano, particolarmente improbabile nelle presidenziali (tuttora) in corso.

Ufficialmente chiamati alle urne il 3 novembre, 101 milioni di statunitensi hanno votato via posta fin dal 16 settembre (64% del totale), cominciando in Minnesota e South Dakota e finendo in North Carolina, Stato che ha accettato come valide schede arrivate anche il 12 novembre. In assenza di un ministero dell’Interno e di certificazioni formali, il 7 novembre Associated Press, Cnn e Fox News hanno annunciato Biden come prossimo presidente, collocandolo oltre la fatidica soglia dei 270 grandi elettori al termine di laboriosi calcoli matematici. Nonostante i festeggiamenti del campo democratico, a fine novembre mancavano dati ufficiali in Georgia, Michigan, Pennsylvania.

Appigli sufficienti per un candidato senza scrupoli. Da subito Trump ha negato la validità del voto postale, bollato come fraudolento. «Con le schede spedite da casa ci vogliono rubare le elezioni. (…) Tutto questo metterà gli Stati Uniti in grande imbarazzo» 2, ha sbraitato per screditare uno strumento utilizzato soprattutto dagli elettori democratici.

Accuse respinte dal dipartimento per la Sicurezza infrastrutturale e cibernetica, il cui direttore Chris Krebs ha definito l’ultima consultazione «la più corretta della storia», prima d’essere licenziato dalla Casa Bianca. Eppure allusioni che palesano la mancanza di riservatezza nel suffragio da remoto, fisiologicamente incline alla promiscuità, con familiari e conoscenti spesso presenti al momento del voto altrui. E che segnalano la deviante dilatazione delle presidenziali, celebrate nell’arco di quasi due mesi, con percezioni diverse tra i cittadini perché non riferibili al medesimo giorno.

The Donald ha pure rifiutato la proclamazione del vincitore da parte dei media – benché quattro anni fa avesse accettato tale astrusa consuetudine che ne decretò il trionfo. «Stiamo vincendo dove i network sostengono il contrario» 3, ha inveito, respingendo una procedura tanto incredibile quanto usuale. Mossa che ha provocato la rottura con Fox News, per quattro anni suo principale alleato.

Quindi s’è rivolto a tribunali locali per sospendere la certificazione del voto in almeno quattro Stati. Ha invitato esponenti conservatori della contea di Wayne, in Wisconsin, a invalidare lo spoglio e il (repubblicano) segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, ad annullare il riconteggio. Ha convocato alla Casa Bianca i leader repubblicani dell’assemblea del Michigan per convincerli a scegliere grandi elettori di inclinazione conservatrice, senza curarsi del voto popolare espresso nello Stato. Pressione pressoché inedita nella storia statunitense, laddove formazione e attività del collegio elettorale si svolgono nel totale disinteresse dell’opinione pubblica.

Finora i tentativi di rovesciare il decretato esito delle presidenziali non hanno prodotto risultati concreti. Ma l’offensiva trumpiana, tanto dolosa quanto scenografica, ha denudato il sistema statunitense. Così imperfetto da consentire al candidato sconfitto di dichiararsi vincente, di rifiutare la procedura di transizione, di condurre il paese allo stallo istituzionale. Crisi apparentemente inattesa, capace di danneggiare l’immagine degli Stati Uniti come patria della democrazia, sovente usata per imporre la propria volontà alle altre potenze, per innescare cambi di regime all’estero. Narrazione improvvisamente svelata nella sua mistificazione, al termine di elezioni cantate come le più partecipate dell’ultimo secolo, con appena il 66% di affluenza.

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