Dalla Propaganda (Live) alla Rai. Damilano nel vespaio del giornalismo elettorale

Fabio Martini La Stampa 29 Agosto 2022
Marco Damilano: “È una campagna autoreferenziale, nessun partito si rivolge agli indecisi”
Il giornalista oggi esordisce come conduttore con “Il cavallo e la Torre” su Rai3: «La politica ha lasciato spazio alla supplenza di avvocati e giornalisti»

 

Solamente in Italia, caso unico tra le democrazie evolute, è possibile svegliarsi la mattina, assistendo a dibattiti di politica e addormentarsi a tarda notte con la stessa “musica”.

 

Davanti a questo assedio perché un nuovo talk show? Marco Damilano, già direttore dell’Espresso, da anni opinionista nelle principali tv, a poche ore dalla “prima” del nuovo programma “Il cavallo e la torre” risponde così:

«Tra l’informazione dei Tg e la polemica dei talk show credo ci sia uno spazio non del tutto coperto: quello dell’approfondimento e del commento. Di spiegazione e di interpretazione dei fatti. Con l’idea che il servizio pubblico debba fare un’informazione che è di tutti i cittadini e quindi indipendente da tutti».

Allievo dello storico Pietro Scoppola, autore di diversi libri sul secondo dopoguerra, Marco Damilano esordisce questa sera su Rai3 alle 20,40 con una striscia quotidiana di dieci minuti, della quale si conoscono solo i temi: politica, poteri, persone. Ogni campagna elettorale è puntualmente «la peggiore di sempre», ma quella in corso in cosa è unica?
«Una campagna molto autoreferenziale. I gruppi dirigenti si sono blindati e ogni leader parla ai suoi elettori, ai suoi zoccoli duri, tra l’altra sempre più ridotti. I partiti della Prima Repubblica si sforzavano di parlare a tutto il Paese, mentre ora nessuno va a cercarsi l’elettore indeciso, quello che in prima battuta non si sente di nessuno».

I politici e spesso anche i giornalisti sono attratti dalla stessa sirena, l’audience, che rende superficiali ed emotivi. Raccontando questa campagna elettorale, vi concentrerete su campi delimitati?
«Sì. Ci sarà la politica, ovviamente. Ci saranno i poteri, che oramai vanno declinati al plurale, perché viviamo in una stagione di fragilità anche dei poteri, che spesso non hanno le leve per agire e il Potere non è più un Moloch. E quanto alle persone, racconteremo singole storie ma collocate in un contesto. La striscia, con la sua brevità, ci imporrà di andare al cuore, senza girarci intorno, senza effetti speciali e senza concessioni all’emotività. Offriremo un punto di vista che vada oltre una logica di schieramento. Che è anche il senso del titolo della trasmissione. La torre è una mossa di schieramento dentro i binari, ciò che giornalisticamente è meno sorprendente, mentre il cavallo è spiazzante. In un periodo elettorale c’è molta attenzione per le strategie dei leader che cercano di conquistare il voto e molta meno per chi il voto deve darlo. Spostare l’attenzione dagli eletti agli elettori, sarà il filo conduttore delle prime puntate».

La migliore Rai – Bernabei, Zavoli, Guglielmi e oltre – ha sempre coltivato una idea forte di servizio pubblico: come si rinverdisce quella tradizione?
«In una stagione nella quale lo Stato torna al centro, nel campo dell’informazione non si può fare un servizio di parte o, peggio ancora, di partito. In Bernabei che volle Biagi alla guida del telegiornale o in Agnes, che affidò a Guglielmi la guida di una nuova Rete, c’era l’idea della Rai casa di tutti».

La politica prova a delegittimare i giornalisti indipendenti – è accaduto anche a voi in questi giorni – ma un assist non lo danno i giornalisti più faziosi?
«Direi di sì. In questi anni una politica insicura della propria identità ha lasciato spazio a qualsiasi tipo di supplenza, quella degli avvocati, dei magistrati e quella dei giornalisti. Ma se si fa giornalismo, non si fa politica. Questo non significa che il giornalista non abbia le sue idee: il giornalismo non è un barometro e l’interpretazione dei fatti è essenziale».

Un maestro, Sergio Zavoli, dimostrò che si possono intervistare persino i brigatisti assassini, non per riabilitarli e neppure per umiliarli, ma semmai per capire perché si spinsero sin lì. Senza mai sovrapporre il proprio giudizio. Un modello?
«Sì. Quelle interviste sono una lezione di giornalismo e di servizio pubblico e tra l’altro di Zavoli si sentiva solo la voce. La moralità del giornalista consiste nel fare le domande giuste, senza ergersi a giudice. Il giudizio lo devono dare sempre i telespettatori».

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