Il fantasma di Draghi si aggira su Cernobbio

Federico Fubini Corriere della Sera 5 settembre 2022
Cernobbio, al Forum Ambrosetti gli imprenditori aprono alla svolta, ma hanno nostalgia di Draghi

 

Se Villa d’Este fosse popolata da fantasmi, il volto di Mario Draghi aleggerebbe sulla grande sala sul lago mentre gli aspiranti al suo posto si sfidano. Pare quasi che l’ologramma del premier sovrasti le teste di Carlo Calenda, Giuseppe Conte, Enrico Letta, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani e quelle di una platea di imprenditori in cerca di risposte.

 

Non è un caso se la gara dell’applausometro alla fine non la vince nessuno di loro ma Renato Brunetta, quando rivendica l’eredità del suo governo: «Se continuerà lo spirito repubblicano — dice il ministro — io resterò ottimista per questo nostro straordinario Paese».

La sala, per Brunetta, viene giù: applauso prolungato, puntiglioso. Draghi è ancora al suo posto, eppure il selezionatissimo popolo del Forum Ambrosetti ha già nostalgia. Niente di tutto questo significa che gli imprenditori e i manager abbiano perso di concretezza: sanno che ora la scelta è diversa e ascoltano i candidati con cura. Alcuni, come Margherita Stabiumi di Alfa Acciai, applaudono convinti quando Salvini attacca le sanzioni alla Russia perché — sostiene — fanno più male all’industria italiana che al Cremlino. Nel complesso però la gara degli applausi la vince Calenda per distacco (al netto di Brunetta, fuori categoria) anche perché questa platea non dimentica gli sgravi di Industria 4.0 che volle lui quand’era ministro dello Sviluppo. Secondo posto, a distanza, Letta per il garbo e la competenza. Ultimo Conte, accolto nel gelo in collegamento da Napoli perché tanto sa che i suoi voti non sono a Cernobbio. A metà classifica per il gradimento espresso alla luce del sole gli alleati di centro-destra, con Meloni avanti, almeno negli applausi.

Non che la sala del Forum Ambrosetti sia sbilanciata a sinistra, anzi. Riassume fulminante una figura di vertice di una grandissima impresa, in fila per il buffet dopo il confronto: «Questa platea vorrebbe un governo di centrodestra con Calenda premier — fa —. Ma poiché non è possibile, si fa bastare Meloni». Tutto anonimo, per carità. Pochissimi nel business italiano si sentono abbastanza autonomi da parlare apertamente, ma almeno uno c’è: Gianluca Garbi. Fondatore e amministratore delegato di Banca Sistema, ne ha un po’ per tutti: «Calenda ha detto ciò che la sala voleva sentirsi dire, ma non ci ha spiegato chi dovrebbe sostituire Draghi nel suo piano se questi non volesse tornare a Palazzo Chigi. Conte ha preso una posizione pericolosa per i conti pubblici. Letta ha usato toni quasi di rassegnazione alla sconfitta e ha giustificato l’accordo a sinistra a protezione della Costituzione, che non è propriamente una proposta elettorale».

Qui subentra un altro che del suo parlar franco vive da anni, a New York: Nouriel Roubini. L’economista non si fa pregare: «Dibattito superficiale, ristretto, senza visione di fronte ai colossali problemi dell’Italia — fa ai tavoli del buffet —. Da voi circola idea che il ruolo a Palazzo Chigi possa rendere Meloni pragmatica, moderata: forse. Ma può anche cambiare la Costituzione in senso autoritario, se avrà i seggi in parlamento per farlo». Ad altri osservatori europei in sala invece non è sfuggito che Meloni abbia citato in chiave positiva il leader francese Emmanuel Macron, ma in negativo la linea di Germania e Olanda sul gas.

Ma Garbi non ha finito e riprende proprio dalla leader di Fratelli d’Italia: «Ha sollevato un tema condivisibile sugli errori della globalizzazione e ha ragione nel dire che serve un governo per cinque anni. Ma non mi ha convinto quando dice che l’alleanza di centrodestra è solida». Salvini è piaciuto a Garbi per la sorpresa di aver portato delle slide, mentre Tajani è parso “vintage”. La sostanza però è che la nostalgia di Draghi a Villa d’Este non sta scolorando in vedovanza inconsolabile. Prevale la curiosità di vedere all’opera, in primis, Meloni e Calenda. «Questi politici starnazzano — fa un acciaiere — ma il piano strategico glielo lascia Draghi. Loro non potranno staccarci dall’Europa».

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