Un Pd di sinistra. Per i governisti facile a dirsi, meno a farsi

Federico Geremicca La Stampa 7 ottobre 2022
Pd, un partito in cerca della sua anima: non basterà togliere il doppiopetto
L’attuale fotografia dei dem restituisce un’immagine governista, vicina a ceti colti e benestanti. Nell’Europa dove il vento sovranista soffia sempre più forte, non sarà facile risalire la china

In ossequio alla ben nota legge del contrappasso – che non di rado si applica anche a certa politica – dalla notte del 25 settembre lo sport nazionale non è più il calcio, ma il “tiro al Pd” . È attaccato da tutti: da destra, dal centro e da sinistra. E si tratta solo di capire se l’asprezza dei toni eguaglierà l’irritante sicurezza con la quale – nei loro dieci anni di governo: di qualunque governo – i Democratici hanno fatto da guardiani dell’esistente, difendendo spesso l’indifendibile e dando sprezzanti lezioni di politica e di morale a destra e a manca. Gli errori si pagano, ed il conto – infatti – è arrivato.

È un conto salato, naturalmente. Reso ancor più salato – a riprova del disorientamento seminato dal voto – dagli abiti che il Pd ha deciso di indossare a spoglio praticamente ancora non ultimato: intendiamo gli abiti dello Sconfitto. O meglio: dell’unico sconfitto. Da un punto di vista elettorale – sia in valore assoluto che percentuale – hanno perso enormemente di più, come è noto, Cinquestelle, Lega e Forza Italia: dimezzati o più che dimezzati. Ma Enrico Letta ha scelto da subito la via della drammatizzazione, prefigurando quasi una “nuova Bolognina” (da dove partì il processo che portò allo scioglimento del PCI), tanto da ipotizzare addirittura cambi di nome e di simbolo, proprio come fece Achille Occhetto – molto a sorpresa – nel novembre del 1989.

È stato il modo giusto di avviare la complicatissima discussione che è di fronte al Pd? E che effetto può aver fatto (ad iscritti ed elettori innanzitutto) l’ipotesi di liquidare un partito che è comunque secondo per consensi nel Paese e che ha appena ripreso il governo di tutte le più grandi città d’Italia? Immaginare e progettare un “nuovo Pd” non può che partire da un’analisi corretta di quel che attualmente è: ed è su questo che andrebbe avviata la prima discussione. Ieri, a mente più fredda, Enrico Letta ha rimodulato la sua posizione. Il simbolo non si tocca. E nemmeno il nome. Si riparte da quel che c’è, insomma. Non è una cattiva notizia: a condizione che – partendo da quel che oggi è – il cambiamento sia rapido, visibile e radicale.

E cos’è il Pd oggi? La composizione del suo elettorato dice – più chiaramente di mille convegni – che non è un “partito operaio”, che non rappresenta più quella classe e che risulta invece attrattivo per i ceti colti e benestanti: e anche per giovani e pensionati (questi ultimi forse legati ai partiti dai quali originò il Pd). Non è la foto classica, insomma, di un novecentesco partito di sinistra. Si intende, invece, far rotta in quella direzione? E allora: al di là della sensatezza di una tale svolta, l’attuale gruppo dirigente ha – per formazione, cultura, provenienza e trascorsi – caratteristiche e profilo per una simile correzione? Ha una qualche sintonia – verrebbe da dire – col modo di vivere e di pensare di quelli che ieri Letta ha definito “gli italiani e le italiane che non ce la fanno”? Ieri in Direzione, il segretario ha chiesto l’avvento di una nuova generazione alla guida del Pd: leader giovani ed estranei al meccanismo correntizio che sta soffocando il partito. Nessuno ha applaudito.

L’attuale fotografia del Pd, dunque restituisce – anche dal punto di vista della composizione del proprio elettorato – l’immagine tipica di un partito di governo. Naturalmente, non è un handicap vedersi riconoscere competenze e senso di responsabilità: lo diventa quando quell’attitudine si trasforma in una malattia – potremmo chiamarla “governismo” – che ti porta ad accettare qualunque accordo per qualunque esecutivo. “Dobbiamo togliere il doppiopetto”, ha annotato Letta. “L’opposizione ci farà bene”, ha aggiunto. E soprattutto niente più “inciuci”: quando cadrà il governo della Meloni – ha assicurato – «chiederemo solo le elezioni».

Lo scenario che si apre davanti al Pd è evidentemente complesso. Non ci sono modelli da seguire. In più, in Europa (e non solo) il vento sovranista soffia sempre forte e la sinistra appare in difficoltà quasi ovunque. Risalire la china non sarà facile e non c’è dubbio che occorra partire da quel che si è, per poi ragionare su cosa si vuole diventare. Si parla molto – per esempio – delle alleanze che i Democratici dovrebbero ricercare, e la soluzione sarebbe scegliere tra Conte e Calenda (per semplificare). È una discussione – però – che non è separabile da un altro tema, che anche ieri ha aleggiato a lungo e dal quale potrebbero discendere molte cose: la legge elettorale. Come si immagina, infatti, il “nuovo Pd” ? Ancora a vocazione maggioritaria come all’inizio della sua storia o proporzionalista come nelle ultime sue fasi?

Non è quesito secondario per un partito che intende rifondarsi: attiene, appunto, all’identità, al profilo e perfino all’“anima” che ci si intende dare. Perché una cosa dovrebbe esser chiara, in casa Pd: non basterà togliere il doppiopetto e cominciare a spararla grossa. Ammesso che dopo 10 anni di governo qualcuno consideri questa operazione facile da realizzare…

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