La fiducia nell’apparente concordia. Meloni distribuisce contentini agli alleati

Stefano Folli La Repubblica 27 ottobre 2022
Il punto del 27 ottobre 2022
Alleati riluttanti ma obbligati
All’inizio della sua replica nell’aula di Palazzo Madama, il (la) presidente del Consiglio ha stabilito un distinguo tra il governo di destra-centro, unito da una comune visione circa gli obiettivi da raggiungere, e i vecchi governi di centro-sinistra, divisi al loro interno.

 

Quei governi, ha insistito Giorgia Meloni senza fare nomi, si appoggiavano a coalizioni frammentate, in cui ogni fazione faceva corsa a sé, scegliendo un segmento o l’altro del programma da realizzare.
Frasi di normale dialettica politica, se non fosse che a molti è sembrato singolare questo richiamo al passato. E infatti era chiaro che la neo premier stava parlando ai suoi “alleati”. È da loro, in particolare Salvini e Berlusconi, che viene il rischio di una coesione solo retorica, in realtà volta ad afferrare unicamente gli aspetti graditi del programma, quasi a proseguire un’ideale campagna elettorale agitando qualche bandiera di comodo. Non è proprio una minaccia alla stabilità dell’esecutivo, dal momento che nessuno oggi è in grado di mettere sul tavolo un’alternativa. Per certi aspetti, anzi, si potrebbe dire che il governo Meloni ha realizzato in modo pragmatico una sorta di cancellierato all’italiana: nel senso che non esiste allo stato una “sfiducia costruttiva” come in Germania, da cui possa scaturire una maggioranza diversa dall’attuale.

La forza parlamentare di FdI è in grado di vanificare sia soluzioni “tecniche” sia ipotesi politiche più o meno pasticciate. Per cui gli “alleati” devono stare attenti a quel che fanno poiché potrebbero essere raffigurati come i responsabili di un ritorno alle urne: e a quel punto, colpevoli del fallimento, andrebbero incontro a un plausibile disastro. Qual è allora il significato del monito meloniano? Il pericolo non è tanto la caduta prematura dell’esecutivo, quanto il logoramento quotidiano provocato da chi ritiene di recuperare consensi nei sondaggi a scapito della causa comune. E qui è sottinteso che ci si riferisce a Salvini, alla sua ricerca di protagonismo per risalire la china. Berlusconi è diverso. Perdonato per le uscite filo-russe, ha celebrato il suo ritorno in Senato dopo nove anni con un discorso da “padre nobile” del centro-destra, se così si può dire. Un passaggio di consegne, in apparenza, tra un signore anziano che ventotto anni fa rifondò il centro-destra e la giovane erede la cui storia politica non coincide affatto con quella del berlusconismo.

È bene non credere troppo a quel che abbiamo visto. La “convinta fiducia” espressa da Berlusconi era scontata. Più interessante sarebbe verificare quel che accade dietro le quinte. Ci sono tanti sottosegretari da nominare, tanti posti da distribuire. Difficile credere che i sorrisi di Berlusconi non fossero volti a spuntare qualche risultato di prestigio per smussare le recenti amarezze. In ogni caso, più insidioso di lui è il capo della Lega, e oggi vice-premier, Salvini. Il quale spera di mettere in difficoltà la sua premier con il dinamismo, recuperando tra l’altro l’attività anti-migranti.

Insomma, un ritorno al 2018-’19. Giorgia Meloni ha deciso al momento di dargli un po’ di corda, senza risentirsi per qualche fuga in avanti. Anzi, ieri lo ha coperto sul tema controverso dell’aumento del contante. Ha garantito che è nel programma della coalizione, ma ha glissato sul fatto che Salvini ne sta già facendo una battaglia leghista. Anche rendendo noti certi dettagli (la soglia dei diecimila euro) su cui non c’è intesa. La questione è risolvibile, ma non è un bel segnale per un governo che non può permettersi conflitti interni tra i soci della coalizione.
Nel frattempo, Matteo Renzi ha colto un dato: oggi ci sono due opposizioni al governo Meloni. Una dialogante di Italia Viva e Azione. E una in chiave populista dei Cinque Stelle. Ci sarebbe anche il Pd, ma per ora è evanescente, stretto com’è tra i 5S di Conte e le astuzie di Renzi.

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