Ischia ci insegna che dovremmo smettere di costruire

Mario Tozzi La Stampa 29 novembre 2022
Ischia ci insegna che dovremmo smettere di costruire
Mentre le notizie da Casamicciola si aggravano di ora in ora, comprendiamo meglio la dinamica della colata di fango che ha devastato il territorio comunale.

Una colata di fango (altrove lahar) è un flusso d’acqua, originatosi dalle piogge ma non solo, carico di materiale detritico di origine vulcanica, come ceneri, scorie, blocchi o lapilli, o preso in carico lungo il percorso. È una delle fenomenologie “vulcaniche” più pericolosa e che causa più vittime, soprattutto perché nessuno si può ritenere al sicuro, anche a molte decine di chilometri dal centro vulcanico, vista la velocità di un lahar, che, dagli oltre 40 metri al secondo lungo i fianchi, resta, comunque, elevata anche a chilometri distanza (da 5 a 15 metri al secondo). Una colata di fango è difficile da prevedere, può avvenire in concomitanza con l’eruzione, qualche giorno dopo (come a Ercolano) o anche settimane o mesi dopo.

Nel caso della Campania, le colate di ceneri originate dal Vesuvio e dagli altri apparati, come il Monte Epomeo, avvengono fino a migliaia di anni dopo gli eventi eruttivi, anche su aree molto lontane dal vulcano. Scesa con quella velocità da 600-700 metri di quota, la colata ha incontrato ogni tipo di ostacolo inconsapevole sul suo percorso: muri e muretti, case, edifici, infrastrutture, autovetture. Ha cercato la sua strada demolendo e abbattendo: costretta e guidata dalle strade e dai vicoli, ha deviato più volte e finalmente è arrivata sulla spiaggia fra stabilimenti, ancora strade, costruzioni, parcheggi e lidi. Una dinamica che ricorda da vicino quella delle colate di fango del 1998 a Sarno, dove si persero 161 vite. Tutto questo in un’isola in cui il comune più grande (Ischia) presenta oltre un terzo della sua superficie a rischio (4 mila abitanti, quasi il 20% della popolazione) e in cui insistono comuni come Forìo, Barano, Lacco Ameno che presentano circa la metà del territorio a rischio idrogeologico, per non dire di Casamicciola, con più di 3000 persone a rischio. Ecco perché mette tristezza vedere la popolazione locale e chi la amministra cercare ogni tipo di scusante pur di non riconoscere quanto è sotto gli occhi di tutti: Ischia è diventata meritatamente simbolo dell’anarchia urbanistica italiana, quella dei famigerati “diritti acquisiti” dagli abusivi, quella del cemento libero su ogni cosa.

E dell’incuria come metodo, dell’abbandono della manutenzione ordinaria, dell’allergia alla idea stessa di prevenzione. Non solo Ischia, certo: l’urbanizzazione dell’ex Bel Paese ci ha visti passare come barbari anche sui suoli più fragili, con un ritmo forsennato che ha portato dal 2,3% del suolo nazionale “costruito” in 2000 anni di storia fino al 1950, all’8,3% nel 2022, triplicandolo in appena 70 anni anche su aree vietatissime alluvionali o franose. Nell’ultimo quinquennio la superficie nazionale potenzialmente soggetta a frane e alluvioni è aumentata rispettivamente del 4 e del 17% rispetto al 2017 a colpi di 19 ettari al giorno, e il 2021 ha fatto registrare il valore più alto negli ultimi dieci anni per il consumo di territorio, mentre la stessa legge a tutela del suolo è rimasta inevasa per due legislature consecutive.

Ecco, se vogliamo vedere cosa fare dobbiamo partire proprio da qui.

1) In Italia, da qui e per sempre, mattoni nuovi zero. Come a dire che si deve porre freno al consumo di suolo che viaggia al ritmo di 1 mq al secondo. Questo almeno per non aggravare la situazione già compromessa.

2) Vanno abbattute senza remora tutte le abitazioni abusive in zone di rischio idrogeologico. Il rischio, in quei casi, è stato creato proprio da quelle costruzioni e le sanatorie e i condoni legalizzano, ma non difendono dalla morte e dai danni. Non è detto che ogni casa abusiva frani, ma ogni casa abusiva appesantisce il territorio. Nessun condono, mai più, deve essere fatto valere nelle zone a rischio.

3) Dove poi non fosse proprio possibile vivere ce ne se dovrebbe andare via per sempre. Si è parlato del “rischio di deportazione”, ma sarebbe bene valutare quali sarebbero le alternative. Bombardare Monte Epomeo? Raschiare via tutte le ceneri vulcaniche dalle montagne campane? Circondarlo con un muro di cemento? Basta osservare le fotografie dall’aereo per capire che non ci sono altre soluzioni: un giorno bisognerà sgomberare alcune zone, quartieri o frazioni, creare un “cuscinetto” fra le aree abitate e le fasce a rischio. Sono soluzioni dolorose, ma quelle fasce a rischio possono trovare una ragione di sicurezza e di sviluppo, se destinate ad attività di conservazione e protezione della natura.

4) Si parla di messa in sicurezza attraverso le opere come se fosse possibile imbrigliare una montagna intera. Come se questa operazione avesse un senso geologico ed ecologico, come se, infine, servisse almeno a qualche cosa. L’intervento ingegneristico per bloccare le colate di fango potrà funzionare solo in limitati casi: non sono infatti note soluzioni di questo tipo che possano arrestare definitivamente le frane. Molto spesso, anzi, le opere che si vedono in giro per le nostre montagne producono svantaggi peggiori dei benefici che volevano ottenere. Altra cosa sono le indispensabili opere di messa in sicurezza del Bisagno a Genova o dell’Arno a Firenze.

5) Ridisegnare con attenzione i percorsi delle vecchie colate, ricostruire la morfologia delle valli e simulare l’avanzata di ogni singola colata, determinandone le velocità possibili, i tempi di arrivo e l’impatto su manufatti e abitazioni. Si saprebbe così dove e quanto evacuare, guadagnando tempo prezioso e evitando paure troppo generalizzate.

6) Servirebbe poi una cura minuziosa del territorio, cioè un recupero delle colture collinari, delle fosse e dei canali di drenaggio delle acque piovane, insomma una rivalutazione di quella cultura ancestrale delle campagne che si è andata perdendo dietro ai miti delle strade e delle città.

Rompere l’indolenza e l’intreccio malavitoso che impedisce un nuovo sviluppo, liberandosi nello stesso tempo dall’incubo delle catastrofi si può, puntando sulla riqualificazione ambientale, nel solco della cura del territorio, che pure da qualche parte sappiamo ancora fare. Si è costruito dove non si doveva, sono stati fatti condoni che sarebbero risultati aberrazione in ogni altra parte del mondo civile, soprattutto non si abbatte alcuna delle costruzioni abusive, facendo forza sullo stato di necessità che in nessun caso può giustificare né lo scempio, né la perdita di vite in seguito alle catastrofi. Allentare i cordoni dell’edilizia e condonare porta consenso, così però in molti casi si muore ed è talmente diseducativo da risultare quasi il male peggiore.

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