L’opposizione non conta e si dedica alle poltrone avanzate

Stefano Folli La Repubblica 1 dicembre 2022
I tre oppositori al ballo delle sedie
Com’era prevedibile, l’esistenza di tre opposizioni prive di un minimo dicoesione determina un disaccordo permanente sulla spartizione del potere.

Non c’entrano in modo diretto i grandi temi di prospettiva, il futuro del Pd e quello dei 5S o le manovre “centriste” di Calenda e Renzi. In primo luogo è una questione di poltrone.

Lo abbiamo visto ieri con il rinvio del Copasir, il comitato di controllo sull’attività dei servizi: è mancata l’intesa sul nome del presidente e se ne riparlerà la settimana prossima. Il Pd ha il suo candidato, anzi forse ne ha due, ma i Cinque Stelle vogliono un’intesa generale che comprenda anche la commissione di Vigilanza Rai. E a questo punto anche il gruppo Azione-Italia Viva avanza le sue pretese. Difficile dargli torto.

Chi non ricorda il gioco adolescenziale delle sedie? I partecipanti girano intorno a una fila di seggiole, una in meno rispetto al numero dei concorrenti. Quando la musica s’interrompe tutti cercano di sedersi, ma fatalmente uno rimane fuori. E viene squalificato. Oggi siamo nella stessa situazione: tre partiti girano intorno a due poltrone. Uno resterà con un pugno di mosche. Quello che al momento si sente più tranquillo è il Pd, consapevole di essere la maggiore forza dell’opposizione. Almeno in base ai risultati, pur deludenti, del 25 settembre: perché se invece si segue la curva dei sondaggi successivi, ecco che il partito di Letta risulta ormai scavalcato dai “contiani”.

Mentre il cosiddetto Terzo polo sopravanza Forza Italia e persino la Lega salviniana.
Ovviamente tale calcolo virtuale non è corretto: è opportuno fermarsi ai dati certi di settembre.
In ogni caso al Pd toccherebbe la presidenza di una commissione (il Copasir, nella persona dell’ex ministro Guerini) e ai 5S spetterebbe l’altra, la Rai. Ma si è visto che l’accordo era molto fragile, per usare un eufemismo. E qui la responsabilità non è tanto dell’azione di disturbo della terza opposizione, quella di Calenda-Renzi, la più piccola se vogliamo pesarla, ma anche la più disinvolta nel gioco di palazzo in quanto la meno ideologica (come si è visto nell’incontro di martedì a Palazzo Chigi). Il problema è il conflitto irrisolto tra un movimento, il M5S, che Conte governa con un certo piglio e un Pd smarrito nei meandri di un congresso che in teoria si svolgerà nel 2023, ma che in pratica è già cominciato nello scontro tra notabili.

Ogni giorno che passa, l’avvocato del popolo si convince vieppiù di poter orientare il Pd, o almeno una parte di esso, su una linea che di fatto implica una sorta di sudditanza verso il M5S. In altri tempi il braccio di ferro sulle due commissioni spettanti all’opposizione non sarebbe stato verosimile. Oggi invece diventa un passaggio della partita a tre che si sta svolgendo. Nella quale Conte vuole tenere ai margini i suoi avversari dichiarati del Terzo polo — e questo è comprensibile — ma allo stesso tempo intende misurare fino a che punto può mortificare il Pd. Così tira la corda sulle commissioni, ben sapendo che alla fine l’intesa non lo danneggerà, anzi. In tal senso, il nome dell’ex magistrato Scarpinato viene fatto balenare per innervosire il partito di Letta, impelagato nei suoi contrasti intestini.

Conte si muove con la solita spregiudicatezza su diversi livelli. Ieri in Parlamento non si è tirato indietro e ha riproposto la sua linea anti-Ucraina, quindi in sostanza filo-russa. Con un pizzico di malizia è facile concludere che non lo muove tanto il desiderio di pace, quanto la volontà di tenere sulla graticola il partner democratico. Ossia di insidiarlo sul terreno della politica estera, dove Letta nel corso dell’anno ha saputo restare fedele a una linea atlantica senza dubbio non condivisa da tutti all’interno del partito. Le critiche a Kiev e al Pd sono un’astuzia per consolidare le ambizioni sulle commissioni parlamentari

 

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