Addio a Pelé, il campione che inventò il futuro

Emanuela Audisio La Repubblica 30 dicembre 2022
Addio a Pelé, il campione che inventò il futuro
Il mito del calcio è morto a 82 anni. Da tempo era malato e ricoverato in ospedale. Il Brasile piange il suo re. La camera ardente nello stadio del Santos, i funerali martedì 3 gennaio

 

 

O Rei era nato a Três Corações, sud-est del Brasile. Tre Cuori. E già questo dice tutto. Il suo nome, Edson, lo scelse il padre, in onore di Thomas Edison, l’inventore della lampadina, perché in quei giorni del 1940, nel Paese, era arrivata l’elettricità. E anche questo dice molto, perché Pelé ha illuminato il calcio: tre Mondiali vinti (’58, ’62, ’70), 1.281 reti in 1.363 partite. Tanto che Andrada, il portiere che prese il millesimo, se lo fece stampare sui biglietti da visita. Non l’aveva deviata, ma con quello sbaglio era entrato nella storia. Gli aveva fatto gol, o milésimo, Pelé, un re, mica un calciatore.

Pelé, il primo campione universale
Anche da attore per la rovesciata (“la chilena”), nel film in Fuga per la Vittoria di John Huston, buona la prima, nessun secondo ciak. Leggerete che Pelé è stato l’infanzia del calcio, quello in bianco e nero, anzi color seppia, come i ricordi, quello molto passato. Non è vero: Pelé è stato il futuro, ha fatto tutto prima degli altri, ha pianificato calcio, gol, carriera. Prima che esistessero i brand, lui è diventato patrimonio nazionale del Brasile. Pelé, il bisillabo più famoso dello sport, ha anticipato un’epoca. Non ci sarebbero Ronaldo, Messi, Neymar, Mbappé senza di lui. E nemmeno Federer, Woods, Hamilton, LeBron. Non ci sarebbero campioni che firmano contratti per cambiare marca, incidere dischi (due con Elis Regina, la Mina brasiliana), fare film, tv, serie, sponsorizzare prodotti (lo ha fatto anche per il Viagra), vendere multiple fantasie, diventare logo.

È stato lui a farci entrare nella modernità, nello sport versione intrattenimento. Nel ’77 il suo nome era più conosciuto di quello della Coca-Cola. Per Brera, in campo, è stato una poesia alla Leopardi, per Romario “un poeta quando tiene la bocca chiusa”, per Cruyff “l’unico giocatore che sia riuscito a sorpassare i confini della logica”, per l’Onu “un cittadino del mondo”, per il titolista del Sunday Times all’indomani della finale mondiale del 1970 “Come si scrive Pelé? D-I-O”.
La carriera di Pelé
È stato chiesa e religione del calcio, anche se non è mai arrivato in Europa e ha giocato sempre in una sola squadra, il Santos, almeno fino al ritiro nel 1974, per poi tornare un anno dopo nei Cosmos di New York. Nello stadio del Santos è stata organizzata la veglia funebre lunedì, martedì i funerali.

Pelé amato dai tifosi
Per César Luis Menotti, suo compagno di club e poi ct dell’Argentina: “Meglio di lui, forse Gesù, e qualche volta Dio”. Per Burgnich che non riuscì a marcarlo in quel famoso gol di testa a Città del Messico, che diventò cartolina, immortalato ovunque, da qualsiasi angolazione: “Lui faceva con i piedi quello che io faccio con le mani”. Pelé aveva tutto: destro, sinistro, testa, fisico, classe, rapidità, spietatezza, senso del tempo. Un 10 e un 9 messi insieme. Un artista che ubriacava, stordiva e divertiva. Nel ’69 in Colombia un arbitro espulse Pelé, e il pubblico iniziò ad urlare e a infuriarsi, allora i suoi compagni spinsero l’arbitro nella porta e giù botte, così Pelé rientrò in campo e ad uscire fu l’altro. Nel 1967, invece, quando il Santos andò a giocare in Africa, c’era la guerra tra Zaire e Congo, ma per fare disputare la partita i due Paesi fanno la pace, a condizione che Pelé giochi un incontro a Kinshasa e uno a Brazzaville. Un capo tribù gli regala perfino una moglie: “Prendila, è tua”.

Pelé, tre mogli e la vita privata
Ha avuto numerose relazioni e tre matrimoni (l’ultimo nel 2016, con una donna di oltre trent’anni più giovane, sua attuale consorte). Tre figli dalla prima moglie (due femmine e un maschio, Edinho, portiere poi allenatore condannato nel 2017 a 12 anni e 10 mesi di reclusione per riciclaggio di denaro proveniente da traffico di droga), due gemelli dalla seconda (una femmina e un maschio, Joshua, anche lui calciatore), e almeno altre due figlie da altrettante donne. Non se la tirava, anche se gli facevano sempre le stesse domande: “C’è un momento in cui ha capito di essere il più grande calciatore al mondo?”. E lui: “Quando ho segnato il millesimo gol, al Maracanã. Era il 19 novembre 1969, avevo 29 anni. Era un rigore. Non ho mai avuto le gambe così pesanti. Quando la palla è entrata, mi sono precipitato verso la rete e sono rimasto col pallone in mano per godermi quel momento in cui avevo realizzato qualcosa in cui nessuno era mai riuscito prima”.
Pelé e il confronto con Maradona
Sorrideva sempre, capitalizzava tutto, talento incluso, diversamente da Maradona preferiva essere dalla parte delle istituzioni: uomo con piuttosto che contro. Dispensava gioia, non polemiche. Era rassicurante, anche ora che a 82 anni mandava messaggi dall’ospedale. È restato Pelé anche quando ha smesso di giocare. Ha portato in giro il suo monumento, senza mai stancarsi o lamentarsi. Nel ’99 subì un tentativo di rapina mentre era fermo sulla sua Mercedes a un semaforo, ma i rapinatori appena si accorsero che era lui, nascosero le armi, si scusarono e se ne andarono. Mentre l’anno dopo Romario, a cui capita la stessa disavventura, fu costretto a tornare a casa a piedi, senza auto, soldi e cellulare. Due anni fa nel giorno del suo compleanno Pelé parlò del benvenuto che voleva ricevere in Paradiso: “Spero che Dio mi accolga come fa la gente che ama il calcio”. Sapeva che il cielo non poteva non tifare per uno che con il pallone aveva fatto miracoli. O Rei voleva le porte aperte anche lì.

 

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