Martone e Troisi, “Figlio di Napoli, ma il suo cinema appartiene al mondo”

Arianna Finos La Repubblica 18 febbraio 2023
Mario Martone racconta Massimo Troisi: “Figlio di Napoli, ma il suo cinema appartiene al mondo”
Il rapporto difficile con l’amore, le idee politiche, la vita, la morte. Un ricordo dell’attore, con qualcosa di nuovo da scoprire, nel documentario ‘Laggiù qualcuno mi ama’ presentato al Berlino Film Festival

Martone racconta il suo Troisi. Il talento da regista, il rapporto sofferto con l’amore, il carattere ostinato e contrario, le idee politiche, i pensieri sulla vita e sulla morte, la fragilità e la contemporaneità dei suoi personaggi. Alla Berlinale 73, sezione Special, Laggiù qualcuno mi ama, il film di Mario Martone su Massimo Troisi . Un viaggio profondo nell’anima del regista e attore, attraverso i suoi film, le conversazioni di colleghi che lo hanno amato, Francesco Piccolo, Paolo Sorrentino, Ficarra e Picone, critici come Goffredo Fofi e la rivista Sentieri selvaggi.

Prodotto da Indiana Production, Vision Distribution e Medusa Film in collaborazione con Sky, il film esce in alcune città il 19 febbraio per il settantesimo anniversario della nascita dell’attore e regista e in tutta Italia dal 23 febbraio.

Martone, che significa portare alla Berlinale un film su Massimo Troisi?

“Mi sento molto bene pensando che ero nel 2021 a Venezia, nel 2022 a Cannes e nel 2023 a Berlino, una bella soddisfazione personale. Ho mandato a Carlo Chatrian e ai selezionatori di Berlino il film in una forma ancora molto grezza, ho pensato che potesse essere interessante ma non mi aspettavo niente. E invece Chatrian mi ha subito chiamato e invitato in questa bella sezione. Questo mi ha riempito di gioia, per me ma soprattutto per Massimo: sono convinto che sarebbe molto contento di sapere che questo film inizia la sua vita a Berlino, in Europa, in un luogo dove il cinema viene valutato come cinema. A questo aspetto teneva molto e sono felice di rendere omaggio a lui e in particolare a lui come regista”.

Nel film c’è il racconto della Napoli in cui Troisi si è formato. Ma Troisi non è solo dei napoletani, è di tutti gli italiani e del mondo. Forse anche lui si sentiva così.

“Certamente. Basta ricordare la celebre battuta dell’emigrante in Ricomincio da tre: “Sei di Napoli? Emigrante”. E lui invece continuamente a spiegare che è una persona che vuole conoscere e vivere il mondo e basta. Questo è un tratto forte di Massimo. Ho cercato di mettere in luce due grandi temi, uno è il discorso sull’amore, sull’impossibilità dell’amore, ma anche sull’anelare l’amore, come qualcosa che compare e scompare; l’altro è questa città che si deve trasformare, di cui sei in qualche modo ostaggio, dalla quale ti vuoi liberare. A ben vedere questi due aspetti sono facce della stessa medaglia, sono il disagio esistenziale che ogni persona al mondo prova, in ogni angolo della terra. Non è un fatto napoletano. Naturalmente si declina a Napoli nella specificità napoletana, però quello che sente Troisi è un sentimento universale”.

Cosa scoprirà il pubblico internazionale?

“Il pubblico internazionale credo conosca Troisi fondamentalmente per Il postino, il film “postumo” di Massimo, lo definisco così e chi vedrà il film capirà cosa voglio dire: perché per me Il postino è un film di cui lui è autore, nonostante non sia il regista. Cerco di spiegare questa mia convinzione. Il postino è stato candidato all’Oscar, Massimo è stato candidato all’Oscar, era morto e naturalmente la leggenda di lui in questo film ha attraversato l’oceano. Però quello che scopriranno è da dove veniva Massimo: dall’humus, dalla temperie della Napoli anni Settanta, che era una temperie politica, sociale, umana fortissima, dal mondo dei movimenti, da un mondo che si stava trasformando e di cui Massimo è stato un grande interprete. Infatti nel film cerco di raccontare l’aspetto politico di Massimo e del suo cinema. Un altro aspetto che viene meno in mente quando si pensa a lui”.

Nel film esce in modo chiaro.

“Questa mia suggestione ha trovato pezze d’appoggio nei foglietti straordinari che Anna Pavignano conservava di Troisi, tanti pensieri, battute, cose irresistibilmente comiche e cose malinconiche, profonde. Ma anche tutta una serie di passaggi politici forti, che scriveva da ragazzo e si vedeva che c’era grandissima consapevolezza. A un certo punto c’è un biglietto, che cito nel film, in cui lui dice: il mio personaggio deve essere sempre contro, non deve mai accettare i compromessi e il conformismo. E la cosa che mi colpisce pensando a tutto quello che ha fatto nella sua breve vita, stranamente non tutto il successo del pubblico che lo adorava, è rimasto sempre quel personaggio che voleva essere, un personaggio comunque non conformista, non addomesticato”.

Cosa ha scoperto di sé facendo questo documentario? Perché si è messo in gioco comparendo nel film?

“L’ho fatto con un certo imbarazzo, non sono abituato a stare davanti alla macchina da presa ma lo faccio. Ci ho pensato a lungo, dovevo farlo proprio per investire me stesso nel rapporto con Massimo: un dialogo tra registi. Dovevo poter ritrovare me stesso attraverso di lui. Il film dice qualcosa dell’idea del cinema di Massimo, ma anche della mia idea di cinema: il lavoro collettivo, lo slancio con gli altri, riuscire a essere autore anche nel rapporto con le collaborazioni. Ad esempio, il fatto che lui scrivesse con Anna Pavignano, e io scrivo con Ippolita Di Maio. Tante cose che, malgrado siamo così diversi, ci rendono vicini. Anche io ho scoperto delle cose di me”.
Ad esempio?

“Il tempo passa e mi rendo conto che una serie di mie rigidità si vanno scogliendo, nel modo di raccontare, di fare i film. Certamente questo incontro con Massimo è stato l’occasione per sentire questo calore. Massimo l’ho conosciuto nel ’92, è stato breve il tempo della nostra amicizia ma è stato un tempo intenso, avevamo stima reciproca, ci volevamo bene e in qualche modo aleggiava l’idea di fare un film insieme. Sono convinto che l’avremmo fatto. E quindi è chiaro che questo è stato il film che volevo fare allora.

Quando ho capito che questa era l’occasione mi sono detto: voglio stare con Massimo, voglio riportarlo sullo schermo davanti agli spettatori, creare un film nuovo per lui. Il postino, quando sono andato in sala, non sono riuscito a vederlo, il fatto che fosse morto lo rendeva impossibile, l’ho visto tra le lacrime senza rendermi conto di niente.

L’ho rivisto adesso, a distanza di tanti anni: sono scoperte, capire anche la statura di quel film, il lavoro di Michael Radford, anche lui un grande regista, riuscire a raccogliere tutti questi fili, capire cosa è stata la nostra città, che forza ha avuto nei confronti di noi tutti, di qualunque estrazione sociale fossimo, di qualunque generazione.

Nel film ho voluto parlare non con le persone che conoscevano Massimo, a parte Anna Pavignano, che ha dato questo contributo importante con materiali preziosissimi, ma per il resto ho incontrato persone che sono state segnate da Massimo, a cominciare da Paolo Sorrentino”.
Com’è stato il rapporto con Sorrentino?

“Siamo molto amici, è facile. Incontrarsi su Troisi era un terreno di gioco comune anche se è molto divertente il fatto che con Paolo è stata una vera conversazione, non una intervista. E lui all’inizio dice che Troisi lo liberava, lo alleggeriva dal peso della politica che lui sentiva attraverso il fratello maggiore, la famiglia, il padre. Per me, che ho dieci anni più di Paolo, era l’esatto contrario, Troisi era qualcosa che mi parlava politicamente. Due punti di vista e due generazioni diverse: in dieci anni cambia il modo di guardare la società, il mondo, la politica. E’ stato interessante”.

E c’è il fantastico incontro di Troisi con i critici della rivista ‘Sentieri selvaggi’.

“E’ una piccola sorpresa di quelli che allora erano ragazzi, che si erano entusiasmati e avevano capito il cinema di Troisi, profondamente. Massimo ne era molto contento. E infatti va in tv da Gianni Minà con questo libro perché ci teneva, teneva moltissimo che lo considerassero come regista e soffriva del fatto che questo non gli fosse riconosciuto per davvero”.
E’ bello sentire le registrazioni di Troisi che parla con Pavignano e una loro amica di sé stesso, come in terapia.

“Sono materiali preziosi. Come i foglietti, e l’agenda dell’anno in cui fa l’operazione al cuore, che è lo stesso anno in cui lui nasce in teatro dopo le sperimentazioni quello è l’anno in cui si va verso la Smorfia. Credo siano qualcosa che può emozionare il pubblico. In quelle registrazioni Massimo parla in una maniera molto abbandonata, intima. Al di là del filtro delle interviste, si lascia andare ed è molto bello”.

Troisi ha influenzato con i suoi film una generazione. Come si dice nel film, “ci ha aiutato ad accettare i figli che non erano nostri”. E c’è il rapporto con un universo femminile molto forte nel suo cinema.

“Era uno degli aspetti che mi colpiva molto. Perché io vedevo i film di Massimo, e i personaggi femminili erano diversi da quelli che si vedevano in genere nel cinema italiano. Lui era fragile, e c’era sempre una forza e una realtà delle donn, erano donne reali. Questo mi sorprendeva, c’era sempre il nome di Anna Pavignano nei titoli, che non conoscevo. Mi colpiva. Poi scoprii che era una ragazza di Torino di cui si era innamorato. Quando Troisi fa il suo primo film è già amatissimo, comico riconosciuto. Quanti sceneggiatori straordinari circolavano in Italia? Avrebbe potuto affidarsi a un grande gruppo di sceneggiatori da commedia. E invece no, fa il suo film con la ragazza di cui si è innamorato, una femminista che viene dai movimenti, e questo dice moltissimo della libertà di Troisi, del suo spirito ribelle. Il modo in cui le donne sono raccontate nei suoi film è un grande passo avanti non solo dal punto di vista sociale ma anche cinematografico. Quando dico che è un cinema che mi fa pensare alla Nouvelle vague è per tutte queste ragioni qui: ci sono l’amore, la politica, il ruolo della donna diverso, tutti questi aspetti”.

Qual è la contemporaneità di Troisi?

“E’ fortissima. Io ho avuto la fortuna di poter filmare la scorsa estate la proiezione di Il postino organizzata dai ragazzi del Cinema America a Roma, che conclude il mio film e si vede quante persone, quanti giovani ci sono ad ascoltarlo, ridono e piangono con lui. Anche sul web: la scrittura fulminante di cui lui era capace crea una serie di frammenti di cinema esplosi nel firmamento di internet, e che parlano a pubblico di oggi”.

Scelse di girare ‘Il postino’, rimandando l’operazione al cuore.

“La sua scelta fa parte della parabola di questa vita incredibile: avrebbe potuto – come tanti gli consigliavano – operarsi prima ma lui ci teneva in maniera straordinaria, disse ‘voglio fare questo film con il cuore mio’. E gli è costato la vita. Essere morto dopo l’ultimo giorno di riprese lo fa entrare in una dimensione mitica”.

Ci sono tanti documentari e tanti materiali su Troisi, questo però è qualcosa d’altro.

“Io ho un’idea di come era Massimo, l’ho sempre avuta, nella cartella stampa del film c’è un mio scritto del ’95, un pezzo che scrissi per Il Mattino un anno dopo la morte di Massimo. Ho detto pubblicate questo, dico cose che raccontano questo film, rappresentano ciò che ho sempre pensato di lui. E’ chiaro che è anche un po’ una creazione: se affronto Scarpetta lavoro sui documenti e l’assoluta verità di una serie di cose, poi creo un personaggio. Questo non avviene qui, con Troisi, come non è avvenuto con il Tornatore di Ennio – un film per me importante, mi ha dato una spinta, facendomi capire che c’era spazio per fare un vero lavoro cinematografico.Il rapporto tra quello che Morricone era e l’immaginazione amorosa di Tornatore che lo racconta. Spero ci sia qualcosa del genere anche in Laggiù qualcuno mi ama”.

 

 

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