Da Cutro a Elly Schlein. Il nostro tempo, la nostra parte

Marco Damilano Domani 10 marzo 2023
Da Cutro a Elly Schlein. Il nostro tempo, la nostra parte
C’è una data che segna il nostro presente e forse il nostro futuro. Domenica 26 febbraio 2023.
La giornata si è aperta all’alba, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, un’alba livida, maledetta, in cui una nave carica di migranti, profughi, donne e bambini, si è schiantata a pochi metri dalla riva.

E si è chiusa a notte fonda, in un piccolo teatro sulla via Prenestina a Roma, con la vittoria a sorpresa di Elly Schlein alle primarie per la segreteria del Pd.

C’è una data che segna il nostro presente e forse il nostro futuro. Domenica 26 febbraio 2023. La giornata si apre all’alba, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, un’alba livida, maledetta, in cui una nave carica di migranti, profughi, donne e bambini, si schianta a pochi metri dalla riva. E si chiude a notte fonda in un piccolo teatro sulla via Prenestina a Roma, a pochi metri c’è la parete all’angolo della strada su cui sono attaccate piccole lapidi di marmo, a decine, a centinaia, ringraziamenti alla Madonna per il miracolo ricevuto, gli ex voto.
Non è un miracolo laico, ma a quell’ora è chiaro che la vincitrice delle primarie per la segreteria del Pd sarà Elly Schlein, classe 1985, la prima donna a vincere, la più giovane della storia del partito, la prima a ribaltare l’esito scontato per cui il predestinato alla leadership per presidenti di regione, sindaci, parlamentari, editorialisti, sondaggisti era un altro, Stefano Bonaccini.

Vince grazie agli ex voto, quelli che non votavano più, che avevano perso interesse e passione per la politica. Quelli imprevisti. I principali inviati dei grandi giornali, infatti, come i loro direttori, non l’hanno previsto, sono a Roma, sono altrove, in Emilia, nel quartier generale dello sconfitto, non ci sono quando la vincitrice prende la parola, tira il fiato e sorride: «Care tutte, cari tutti, ce l’abbiamo fatta. Insieme abbiamo fatto una piccola, grande rivoluzione. Anche stavolta non ci hanno visto arrivare».

NON CI HANNO VISTO ARRIVARE

Non ci hanno visto arrivare è il titolo del libro della storica femminista americana Lisa Levenstein. Uno slogan così potente da essere ripreso anche da Giorgia Meloni, a proposito di donne al vertice. Da Steccato di Cutro, però, ha un ben altro significato. Non li hanno visti arrivare, quei migranti naufragati a una bracciata dalla costa. Non li hanno soccorsi, non li hanno salvati. La Guardia di finanza è partita, ma non è arrivata. La Guardia costiera non è mai partita. E non c’è nessun complotto, se c’è dolo o errore lo stabilirà la magistratura, di certo ci sono la deriva istituzionale, la sovrapposizione di competenze, l’intreccio tra operazioni di polizia e operazioni di salvataggio. Amplificato dalle parole a caldo del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

Una neo-lingua burocratica, asettica, l’eloquio protervo di un ministro che spiega «il quadro situazionale», che scarica la colpa su chi ha avuto il torto di partire, che accusa di non battersi per migliorare il proprio paese chi scappa dall’Afghanistan dei Talebani, da cui nel 2021 sono fuggiti anche gli occidentali, in modo precipitoso e sugli aerei militari. Il ministro appare «impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana», come scriveva Aldo Moro nel suo memoriale dal covo delle Brigate rosse di Giulio Andreotti, che non lo dimenticò mai, fino alla fine.
Il naufragio diventa così strage, perché non c’è solo il mistero sul mancato soccorso. C’è anche la reazione popolare, dei cittadini di Calabria che rifiutano le verità ufficiali, come fecero nel 1969 i cittadini di Milano dopo piazza Fontana, i cittadini di Brescia dopo la bomba del 1974, i cittadini di Bologna feriti dall’eccidio della stazione nel 1980, di fronte ai depistaggi e alle menzogne di stato.

Una reazione imprevista, anche questa non è stata vista arrivare. Quei fiori, gli omaggi, la rabbia, l’indignazione, che hanno costretto il governo Meloni a convocare il Consiglio dei ministri a Cutro, a cambiare spartito, perché quei corpi ricostruiti nel palasport di Crotone, con la sigla Kr al posto del nome, non possono più essere considerati invasori da ricacciare indietro con il dogma della difesa delle cosiddette frontiere esterne.

POLITICA E POLIZIA

Non li abbiamo visti arrivare. O li vediamo alla fine, al momento dell’approdo, quando i migranti diventano contabilità degli sbarchi quotidiani, o al momento del naufragio. E non vediamo tutti gli altri naufragi nel Mediterraneo. Non li vediamo perché in questi anni le politiche dell’immigrazione della destra e della sinistra, dal memorandum con la Libia stipulato con scafisti travestiti da uomini di stato, senza dimenticare che taxi del mare fu un’espressione usata da Luigi Di Maio capo del Movimento 5 stelle, sono accomunate dall’idea di bloccare l’emergenza e non di governare una delle questioni centrali del nostro tempo. Si governa con la politica e non con la polizia, ma la politica ha pensato di fare consenso con la polizia, con i porti chiusi.
In questo numero di Politica Elena Testi, da cronista ansiosa dei fatti, racconta quelle prime ore, quelle giornate, viste da Cutro e da Crotone, quella «spiaggia di detriti, vergogna e croci». «Siamo fratelli nella stessa disgrazia, noi migriamo verso il nord e loro arrivano qui. Una migrazione circolare», scherzano amaro. Una folla che chiede verità e giustizia. «È l’urlo composto, ma feroce nella sua ricerca. “Potevano essere salvati, potevano essere salvati”. C’è un filo sottile ma potente che unisce la piazza fuori dalla sofferenza di dentro: la fratellanza umana».

Daniele Mencarelli, con la sua sensibilità di scrittore unico e prima di tutto di uomo, si chiede se tutto questo non sia l’effetto di un processo di disumanizzazione, «da umani a subumani. Da uomini a ominidi, anelli mancanti tra noi e gli altri primati, per rendere ordinario l’inferno in terra». E chiede a tutti di fermarsi, almeno per qualche ora, di smettere almeno per un momento di essere macchine produttive.

Non li abbiamo visti arrivare. Così come non vediamo gli incidenti sul lavoro, le aggressioni verbali e fisiche nei confronti di una donna, la violenza sul pianeta. E non vediamo, neppure, il carico di solidarietà, i granelli di impegno sociale e civile che spostano le montagne, il cambiamento che in molti lati della società è già arrivato da un pezzo, solo che è invisibile, non visto.

LA SOCIETÀ RIVELA LA POLITICA

Un frammento è arrivato dall’altra lezione del 26 febbraio, la vittoria alle primarie del Pd di Elly Schlein. Inattesa per molti osservatori, come fu inattesa, ben prima che lei nascesse, la vittoria dei contrari ad abolire il divorzio al referendum del 1974. Per dire che ci sono momenti in cui la società rivela alla politica (ai giornali, ai sondaggisti, agli ascoltatori della pubblica opinione) qualcosa che la politica avrebbe dovuto capire in anticipo e non è riuscita a intercettare, ad ascoltare.

Non è la soluzione di tutti i problemi, è solo l’inizio. La restituzione di una dignità alla politica come leva di cambiamento, «di liberazione e non di rassegnazione», come spiega il ragazzo del 1927 Rino Formica, che in questo 2023 festeggia 80 anni di impegno politico, si iscrisse nel 1943 a sedici anni al Partito socialista, il più lucido a intuire che Elly Schlein segna la fine di un ciclo, non rappresenta una persona che ha fatto una scelta di vita, ma, al contrario, «è stata scelta dalla vita».

Non è l’anno zero, Elly Schlein, ma affonda il suo percorso ancora giovane in radici robuste e antiche. E rompe con l’idea della storia condivisa, l’appiattimento, l’annullamento delle differenze, il conformismo che ha fatto da sfondo alla progressiva trasformazione degli eredi di un’ideologia di trasformazione in esponenti di un pallido establishment. La nostra parte, come si intitolava il manifesto di Schlein pubblicato un anno fa, in cui giustizia sociale e ambientale si tengono insieme.

Franco Monaco, Mario Ricciardi, Paolo Gerbaudo e Giuseppe Genna si interrogano sulle conseguenze sul sistema politico dell’effetto Schlein, con il Pd, il partito dato per morto, che per un decennio ha stazionato nel governo fingendosi morto e che ora sarà obbligato a tornare in vita, spronato da una giovane donna che ha avuto il merito di accettare la sfida.

Superando le resistenze di chi le consigliava di saltare un giro, la superbia dei piccoli inquisitori, i custodi di un’ortodossia che non c’è più, i nostalgici di Suslov e, perché no, il riformismo che si è riscoperto patriarcale, infastidito dal fatto che potesse arrivare al vertice qualcuno, qualcuna, che non era stata invitata, che non aveva chiesto prima il permesso. Una leader contemporanea.

«Mi sforzo di immaginare come possano sentirsi i miei coetanei di sinistra. Come si sentano davvero, al di là delle parole. Nel cuore. Siamo soli, disintermediati, tanti individui con le spalle scoperte, soffocati nelle guerre fra poveri, ci accapigliamo per dividerci le briciole, guardando dentro la gola buia di un futuro che a breve, se non aboliamo il consumo di combustibili fossili per la produzione di massa di energia, ci inghiottirà insieme a un pianeta che può concretamente tramontare prima di noi. Spesso si dice che i giovani non vogliano impegnarsi in politica. È falso. Molti giovani ci provano a fare politica, ma vengono stroncati dai blocchi di potere che tengono ben salde le redini dei territori.

Qualcuno ce la fa, Elly Schlein ce l’ha fatta, ce l’ha fatta grazie ai voti del popolo, una vittoria anti-oligarchica. Ma la solitudine resta. A Elly Schlein vorrei far conoscere questa dimensione che forse è di tanti, forse è solo mia». Lo scrive Costanza Savaia in questo numero. Sarebbe bello se la nuova segretaria del Pd le rispondesse, nel momento della vittoria. Per non dimenticare la solitudine di tanti e di tante altre. Quel che non si vede arrivare.

 

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