Il crash e l’ottusità di Dazn, l’utente che paga anche per chi non paga

Alessandro Longo Domani 21 agosto 2022

 

Tra rincari ed errori informatici Dazn scarica la responsabilità dei disservizi sui clienti

 

Un sistema complesso, molto pensato per difendere i diritti televisivi miliardari sul calcio, anche a scapito della comodità dell’utente. E che qualche giorno fa, proprio al debutto della stagione, ha fatto crash.

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Una piattaforma inadeguata per un’industria miliardaria

DDAY-it Gianfranco Giardina – 15 agosto 2022
DAZN, eterna start-up, paga il fatto di non essere mai cresciuta.
E per calmare le acque annuncia gli indennizzi

 

DAZN non riesce a mitigare i propri problemi alla sua quinta stagione con la Serie A. Evidentemente i problemi sono complessi e strutturali e richiedono soluzioni drastiche, non messe a punto. Annunciati in queste ore indennizzi per gli utenti coinvolti dai disservizi della prima giornata

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Paga e speriamo bene. Dazn lo scandalo della concorrenza in Italia

Mario Piccirillo il Napolista 16 Agosto 2022

 

Dazn è una piattaforma di bondage:
paghiamo per farci trattare male, in fondo un po’ ci piace
Intanto è in corso una paradossale trattativa istituzionale per farci riconoscere la mancetta di 8 euro per sgonfiare tutto, come l’anno scorso

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Dazn, aumento dei prezzi, previsioni sbagliate, niente investimenti

Luca Sebastiani Domani 04 maggio 2022

 

Dazn, le difficoltà della piattaforma a diventare la Netflix dello sport

 

In un articolo di The Information vengono messe in luce le difficoltà della piattaforma fondata dall’imprenditore Len Blavatnik a causa del periodo pandemico e delle controversie interne alla dirigenza

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Fallita anche la geniale sanzione di Johnson su Wimbledon

Paolo Garimberti La Repubblica 10 luglio 2022
Wimbledon, la tennista russa beffa Johnson
La vincitrice Elena Rybakina ha preso la nazionalità kazaka e quindi non poteva essere colpita dal bando a sostegno dell’Ucraina.  
La Storia ha apparecchiato una clamorosa beffa alla superbia della Gran Bretagna, colpendola in una dei simboli più iconici della sua orgogliosa insularità: Wimblendon, unica prova del Grande Slam che si gioca sull’erba, il solo torneo al mondo dove la divisa bianca è obbligatoria, l’ultimo dove il doppio (quello maschile ovviamente) e addirittura l’ultimo turno delle qualificazioni si giocano al meglio di cinque set.

E che, forte del suo nome, del suo fascino, della sua tradizione aveva deciso quest’anno di bandire i giocatori e le giocatrici russe per . rappresaglia contro l’aggressione dell’Ucraina: una sfida all’Atp, una scelta considerata troppo drastica perfino dagli americani, che non se la sono sentita di escluderli da Flushing Meadows.

Ed ecco che, due giorni dopo le dimissioni di Boris Johnson, il più grande alleato del presidente ucraino Zelensky nella coalizione occidentale, una giocatrice nata a Mosca, residente a Mosca, cresciuta nello Cska e nello Spartak, i due club sportivi più rappresentativi dello sport russo già al tempo dell’Urss, viene premiata sul neo-centenario Centrale di Wimbledon dalla duchessa di Cambridge (vestita forse non casualmente di giallo “ucraino”) con il tradizionale piattone della vincitrice.
Perché Elena Rybakina, la russa che più russa non si può, alta, bionda, con un inglese dal marcato accento russo, ha preso la nazionalità kazaka e quindi non poteva essere colpita dal bando. E, finito l’incontro con la tunisina Ons Jabeur, è corsa ad abbracciare in tribuna una tennista in pensione, Jaroslava Shvedova, anche lei nata a Mosca, che a Wimbledon vinse pure un doppio nel 2010, e anche lei presente perché intanto si è naturalizzata kazaka.
La beffa si trasforma in intrigo perché la Russia tennistica, messa alla porta da Wimbledon, è rientrata sul Centrale da una finestra spalancata dal Kazakhistan grazie a un ex grande alleato di Putin, uno di quei dinosauri politici dell’epoca sovietica rimasti al potere nelle repubbliche dell’Urss diventate Stati indipendenti: Nursultan Nazarbaev, rimosso recentemente da un misterioso golpe secondo molti ispirato proprio da Putin che non si fidava più di lui. Nazarbaev voleva dare un lustro sportivo a un Paese senza tradizioni e incaricò un miliardario locale di fare “shopping” tennistico.
Così un bel po’ di giocatori russi di livello medio, attratti dai soldi kazaki, cambiarono bandiera: Aleksandr Bublik, Mikhail Kukushkin, Andrej Golubev, per citare i più noti. E tra le donne, sulla scia della Shvedova, anche Elena Rybakina, che ha raccontato di aver fatto il cambio di nazionalità nel 2018 perché era in difficoltà economiche.
Ieri, in una delle più modeste finali femminili nella storia di Wimbledon, dove gli errori non forzati (per la paura di vincere tra due neofite in un campo che fa tremare anche i veterani) sono stati davvero troppi, la geopolitica è stata più affascinante della tecnica. Una tunisina, prima giocatrice araba a raggiungere una finale di un torneo del Grande Slam, affrontava una russa travestita da kazaka, allenata da un croato cresciuto a Milano e poi, tennisticamente, negli Stati Uniti, e consigliata da un’altra russa naturalizzata anche lei kazaka.
Non è troppo audace immaginare che dalla duchessa di Cambridge in giù, nel Royal Box del Centrale di Wimbledon, le autorità britanniche del tennis e della politica pregassero perché vincesse la donna araba e non la donna kazaka (ma pur sempre russa). Era stato detto che l’esclusione dei tennisti russi da Wimbledon fosse stata voluta proprio da Johnson per il timore che un’Altezza Reale dovesse stringere la mano di un connazionale di Putin al momento della premiazione (la prima testa di serie nel maschile avrebbe dovuto essere Daniil Medvedev, che vive peraltro da anni in Costa Azzurra). Ma, come direbbe Panatta, il tennis è lo sport del diavolo. E il diavolo ci ha messo la coda. Johnson non è più a Downing Street e la mano stretta da Kate era russa, sia pure in salsa kazaka.

La beffa per noi, soldati italiani ai mondiali di calcio

Andrea Fabozzi il Manifesto 10 luglio 2022
Mondiali, notti magiche anche in Qatar. Di ronda
E invece sì, l’Italia andrà ai mondiali di calcio in Qatar. A Doha, il prossimo inverno, ci saranno anche il tricolore e l’inno di Mameli mentre milioni di turisti avranno l’unico problema di non poter bere birra allo stadio facendo il tifo per la loro nazionale.

 

Non per la nostra, è chiaro, visto che gli azzurri sono stati sbattuti fuori dalla fase finale da un centrocampista macedone che giochicchia nel campionato saudita. In Qatar ci andranno però 560 soldati italiani e si porteranno dietro 46 automezzi, due aerei e una nave. Giocheranno, secondo tradizione, in difesa.

La notizia della spedizione è arrivata alle commissioni parlamentari. L’Italia ha già un piccolo contingente nell’emirato «a supporto delle missioni internazionali», adesso lo moltiplica per quattro e ci aggiunge i mezzi. Il Qatar ha bisogno proprio di noi per garantire la sicurezza di calciatori e ospiti contro possibili attacchi terroristici e per la «consapevolezza situazionale» (tenere gli occhi aperti).

Ha chiesto aiuto anche alla Francia, agli Usa e al Regno unito che però, oltre ai difensori armati manderanno quelli disarmati eanche attaccanti e portieri. Perché si sono qualificati.

Invece l’Italia, dovendo tenere a casa le divise azzurre, al costo di 11 milioni di euro – conto già presentato al parlamento – nel golfo Persico manderà le divise grigioverdi.

Forse per questo il parlamento ha da poco ratificato una modifica agli accordi militari tra i due paesi in base alla quale i soldati in missione saranno sottoposti alla giustizia del posto (occhio dunque alle relazioni sessuali, specie omosessuali). Forse per questo l’export militare verso il Qatar va alla grande, Fincantieri vende una nave da guerra dopo l’altra e Leonardo elicotteri e sistemi radar.

Non vinceremo i mondiali, come aveva annunciato Mancini, anzi nemmeno li giocheremo. Ma negli affari più che nello sport l’importante è partecipare.

Sport alla grande nelle serie tv, l’estro del passato, la forza del presente

Aldo Grasso Corriere della Sera 2 giugno 2022
Gli sport e la tv: quando l’aggressività sottomette lo spettacolo
È come se l’imprevedibile, che è l’essenza stessa dello stupore, fosse ormai bandito dallo sport a scapito della spettacolarità, che è l’essenza stessa della rappresentazione.

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