Alessandro Longo Domani 21 agosto 2022
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IL CROLLO DEI SIMBOLI
E che, forte del suo nome, del suo fascino, della sua tradizione aveva deciso quest’anno di bandire i giocatori e le giocatrici russe per . rappresaglia contro l’aggressione dell’Ucraina: una sfida all’Atp, una scelta considerata troppo drastica perfino dagli americani, che non se la sono sentita di escluderli da Flushing Meadows.
Ed ecco che, due giorni dopo le dimissioni di Boris Johnson, il più grande alleato del presidente ucraino Zelensky nella coalizione occidentale, una giocatrice nata a Mosca, residente a Mosca, cresciuta nello Cska e nello Spartak, i due club sportivi più rappresentativi dello sport russo già al tempo dell’Urss, viene premiata sul neo-centenario Centrale di Wimbledon dalla duchessa di Cambridge (vestita forse non casualmente di giallo “ucraino”) con il tradizionale piattone della vincitrice.
Perché Elena Rybakina, la russa che più russa non si può, alta, bionda, con un inglese dal marcato accento russo, ha preso la nazionalità kazaka e quindi non poteva essere colpita dal bando. E, finito l’incontro con la tunisina Ons Jabeur, è corsa ad abbracciare in tribuna una tennista in pensione, Jaroslava Shvedova, anche lei nata a Mosca, che a Wimbledon vinse pure un doppio nel 2010, e anche lei presente perché intanto si è naturalizzata kazaka.
La beffa si trasforma in intrigo perché la Russia tennistica, messa alla porta da Wimbledon, è rientrata sul Centrale da una finestra spalancata dal Kazakhistan grazie a un ex grande alleato di Putin, uno di quei dinosauri politici dell’epoca sovietica rimasti al potere nelle repubbliche dell’Urss diventate Stati indipendenti: Nursultan Nazarbaev, rimosso recentemente da un misterioso golpe secondo molti ispirato proprio da Putin che non si fidava più di lui. Nazarbaev voleva dare un lustro sportivo a un Paese senza tradizioni e incaricò un miliardario locale di fare “shopping” tennistico.
Così un bel po’ di giocatori russi di livello medio, attratti dai soldi kazaki, cambiarono bandiera: Aleksandr Bublik, Mikhail Kukushkin, Andrej Golubev, per citare i più noti. E tra le donne, sulla scia della Shvedova, anche Elena Rybakina, che ha raccontato di aver fatto il cambio di nazionalità nel 2018 perché era in difficoltà economiche.
Ieri, in una delle più modeste finali femminili nella storia di Wimbledon, dove gli errori non forzati (per la paura di vincere tra due neofite in un campo che fa tremare anche i veterani) sono stati davvero troppi, la geopolitica è stata più affascinante della tecnica. Una tunisina, prima giocatrice araba a raggiungere una finale di un torneo del Grande Slam, affrontava una russa travestita da kazaka, allenata da un croato cresciuto a Milano e poi, tennisticamente, negli Stati Uniti, e consigliata da un’altra russa naturalizzata anche lei kazaka.
Non è troppo audace immaginare che dalla duchessa di Cambridge in giù, nel Royal Box del Centrale di Wimbledon, le autorità britanniche del tennis e della politica pregassero perché vincesse la donna araba e non la donna kazaka (ma pur sempre russa). Era stato detto che l’esclusione dei tennisti russi da Wimbledon fosse stata voluta proprio da Johnson per il timore che un’Altezza Reale dovesse stringere la mano di un connazionale di Putin al momento della premiazione (la prima testa di serie nel maschile avrebbe dovuto essere Daniil Medvedev, che vive peraltro da anni in Costa Azzurra). Ma, come direbbe Panatta, il tennis è lo sport del diavolo. E il diavolo ci ha messo la coda. Johnson non è più a Downing Street e la mano stretta da Kate era russa, sia pure in salsa kazaka.
Non per la nostra, è chiaro, visto che gli azzurri sono stati sbattuti fuori dalla fase finale da un centrocampista macedone che giochicchia nel campionato saudita. In Qatar ci andranno però 560 soldati italiani e si porteranno dietro 46 automezzi, due aerei e una nave. Giocheranno, secondo tradizione, in difesa.
La notizia della spedizione è arrivata alle commissioni parlamentari. L’Italia ha già un piccolo contingente nell’emirato «a supporto delle missioni internazionali», adesso lo moltiplica per quattro e ci aggiunge i mezzi. Il Qatar ha bisogno proprio di noi per garantire la sicurezza di calciatori e ospiti contro possibili attacchi terroristici e per la «consapevolezza situazionale» (tenere gli occhi aperti).
Ha chiesto aiuto anche alla Francia, agli Usa e al Regno unito che però, oltre ai difensori armati manderanno quelli disarmati eanche attaccanti e portieri. Perché si sono qualificati.
Invece l’Italia, dovendo tenere a casa le divise azzurre, al costo di 11 milioni di euro – conto già presentato al parlamento – nel golfo Persico manderà le divise grigioverdi.
Forse per questo il parlamento ha da poco ratificato una modifica agli accordi militari tra i due paesi in base alla quale i soldati in missione saranno sottoposti alla giustizia del posto (occhio dunque alle relazioni sessuali, specie omosessuali). Forse per questo l’export militare verso il Qatar va alla grande, Fincantieri vende una nave da guerra dopo l’altra e Leonardo elicotteri e sistemi radar.
Non vinceremo i mondiali, come aveva annunciato Mancini, anzi nemmeno li giocheremo. Ma negli affari più che nello sport l’importante è partecipare.