Le due anime della Catalogna

La Repubblica OMERO CIAI 08 settembre 2017

Le due anime della Catalogna

A Madrid il governo centrale all’attacco dopo la sfida lanciata dal Parlamento catalano. Rajoy: “Farò tutto il necessario per impedire il referendum sull’autodeterminazione”. Ma a Barcellona vanno avanti e votano la legge che regolerà la separazione

Il giorno dopo la sfida di Barcellona, Mariano Rajoy ha promesso che non ci sarà alcun referendum di autodeterminazione della Catalogna. “Farò tutto il necessario per impedirlo”, ha detto il presidente del governo spagnolo. Che ha subito presentato ricorso al Tribunale costituzionale contro la legge approvata l’altro ieri dal Parlamento catalano. Intanto il procuratore generale ha denunciato il capo della Generalitat, il governo catalano, i ministri e la presidenta del Parlamento regionale, per abuso di potere, disobbedienza e malversazione di denaro pubblico. Il prossimo passaggio potrebbe essere la inabilitazione di Puigdemont e una sospensione dell’autonomia catalana. Lunedì prossimo ci sarà un’altra prova di forza secessionista con la celebrazione a Barcellona della Diada, la festa nazionale dei catalani. Fonti del governo locale accusano Madrid di voler imporre “uno stato d’assedio latente” nella regione ribelle. La Guardia civil, i carabinieri spagnoli, hanno rafforzato la loro presenza in Catalogna e il governo centrale gli ha già ordinato di trovare e sequestrare le schede stampate per il referendum ma soprattutto le seimila urne che dovranno essere usate per la consultazione. Ma nonostante le minacce di Madrid il fronte secessionista nel Parlamento di Barcellona vuole approvare anche la “legge di disconnessione”, quella che regolerà l’addio alla Spagna se vincerà il “sì”

L’ultimo leader politico che dichiarò l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, venne fucilato nella fortezza di Montjuic a Barcellona. Si chiamava Lluís Companys ed era il presidente della Generalitat, il governo autonomo catalano. L’indipendenza in realtà durò poche ore ma alla fine della Guerra civile spagnola vinta dal generale Francisco Franco, Companys si rifugiò in Francia. Nel 1940 venne catturato dalla Gestapo hitleriana e consegnato a Franco che lo fece condannare a morte, dichiarò la Catalogna “una regione nemica”, abolì l’autonomia, e cancellò l’uso del catalano. Durante il franchismo (1939-1975), si poteva finire in galera per parlarlo. Come dicono a Madrid, la società catalana è malata di passato, e in effetti il leit-motiv dell’oppressione, quella del nazionalismo, cattolico e monarchico, della Castiglia centralista di Franco, è ancora una pietra miliare nei ragionamenti dei secessionisti. L’oppressione è finita quarant’anni fa con il ritorno della democrazia e la riconquista dell’ampia autonomia, culturale, politica e linguistica, di questa regione che è, per il suo Pil (200 miliardi di euro all’anno), tra le più ricche della Spagna, ma non l’ha dimenticata nessuno. Così per provare a capire cosa si muove in quella parte -praticamente un filo più della metà – della società catalana che trascinata dal governo nazionalista di Carles Puigdemont vuole il referendum sull’indipendenza e sogna la “Catalexit”, il distacco dal resto del Paese, siamo venuti a Vic, cittadina medievale dall’aria molto toscana a metà strada fra Barcellona e la frontiera con la Francia. Quarantamila abitanti, il Comune di Vic si è già autoproclamato nel 2012 “territorio catalano libero e sovrano”. E basta guardarsi in torno per osservare come qui lo spagnolo – sarebbe più corretto dire il castigliano – è una lingua straniera che tutti usano, quando necessario, malvolentieri, e la Spagna nient’altro che un Paese confinante. Sulla bellissima Plaça Major, ricorda Siena anche per il pavimento di sabbia rossiccia, c’è un grande orologio digitale con il countdown dell’indipendenza – giorni, ore e minuti che mancano al referendum del primo ottobre -, e dai balconi dondolano le esteladas, le bandiere nazionaliste, quelle gialle e rosse ma con il triangolo blu o rosso e la stella. Il cuore del separatismo palpita qui, nella Catalogna centrale, tra Manresa e Brega, dove la “disconnessione” da Madrid è già un dato di fatto da qualche anno, con le insegne dei negozi rigorosamente in lingua locale e dove persino i cellulari sono tutti resettati in catalano.

 

Gli spagnoli ci trattano come una colonia

 

Del risorgimento della lingua, vera chiave di volta delle aspirazioni separatiste, parliamo con Marc Sardà, 42 anni, piccolo impreditore e programmatore web, ma soprattutto responsabile locale di “Òmnium Cultural”, una ong nata nel 1962, sotto la dittatura, per difendere e promuovere lingua e cultura catalane. “Certo – racconta Marc – fino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, il catalano si imparava soltanto a casa, erano i genitori che lo trasmettevano ai figli. Ma poi quando finalmente la Generalitat recuperò le competenze sull’istruzione mise in pratica la cosiddetta “immersione” e questo cambiò tutto. Oggi in Catalogna in tutte le scuole pubbliche si studiano tutte le materie in catalano, lo spagnolo c’è solo come lingua, due-tre ore a settimana, come l’inglese. L’immersione scolastica – grande idea di Jordi Pujol (il leader che governò la Generalitat dal 1980 al 2003) – ci ha trasformati perché oggi, nel giro di un paio di generazioni, anche i figli dei migranti – sia interni dall’Andalusia e Estremadura; sia esterni, soprattutto Marocco – hanno come lingua madre il catalano, sono integrati, si sentono catalani”. Su Madrid, Marc ha idee abbastanza radicali. “Perché non ci fanno fare il referendum? Una consultazione che trova d’accordo qui il 75% degli elettori, convinti che la questione della secessione deve essere decisa dalle urne? Semplice. Perché la transizione spagnola ha lasciato al potere gli eredi del franchismo. Chi è Mariano Rajoy? Politicamente è cresciuto all’ombra di Manuel Fraga. Durante la dittatura Fraga era un ministro, con la democrazia fondò il partito della destra e divenne governatore della Galizia. Rajoy è l’erede politico di un ministro franchista. Come possiamo intenderci con loro?”. “Lo Stato spagnolo – insiste Marc – è antidemocratico e corrotto e l’indipendenza della Catalogna potrà solo fargli del bene perché saranno costretti a ripensare il modello quando non potranno più sopravvivere grazie alle colonie, ossia noi, la Comunità valenziana e le Baleari.

 

Faccio un esempio concreto: da anni il governo spagnolo si oppone a una linea del treno veloce, l’Ave, lungo il corridoio mediterraneo, da Almeria a Barcellona, che è anche la via più semplice per l’export. Perché? Perché hanno una mentalità centralista, tutto deve passare per Madrid, così un pomodoro prodotto in Andalusia per arrivare a Barcellona deve andare prima a Madrid. Tutto il sistema ferroviario super veloce è radiale, centralista. Ma il 50 per cento della popolazione spagnola vive lungo il corridoio mediterraneo e l’80 percento delle esportazioni vengono da qui. Perché non lo fanno? Per umiliarci e per impoverirci”. “Ma tutto il problema di questa storia – aggiunge – sta soltanto nel fatto che loro, Madrid, hanno più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di loro”. Anche sul futuro del Barça, “Il club che è più di un club”, Marc ha le idee chiare. “Continuerà a giocare nella Liga – il campionato di calcio spagnolo – come il Monaco di Montecarlo in Francia. Se poi non ci vogliono andremo a giocare da un’altra parte. I francesi secondo me si prendono il Barça nel

loro campionato”. E l’Europa? “Resteremo europei, non posso immaginare una Catalogna libera fuori dall’Europa. Ma se Madrid ci costringe a restare fuori faremo come la Svizzera, neanche loro stanno nell’Unione e vivono benissimo”. E se al referendum vincesse il “no”? “Ecco – conclude Marc – qui sta la differenza. Noi siamo democratici e se vincesse il “no” ne prenderemmo atto. Certo poi, come il Québec o la Scozia, chiederemmo di tornare a votare tra cinque o dieci anni”.

“Se proclamano l’indipendenza me ne andrò”

 

L’altra faccia della Catalogna si può andare a cercarla a Rubí, città dormitorio nell’hinterland di Barcellona a 20 chilometri dalla metropoli capitale. Negli anni Settanta del Novecento Rubí era un villaggio di tremila abitanti, oggi ne ha quasi 80mila. È stato soprattutto l’effetto di una migrazione interna, avviata mezzo secolo fa, dalle regioni povere del sud del Paese – Andalusia, Estremadura, Aragona – verso il nord ricco e economicamente prospero. Oggi l’economia di Rubí è legata a un grande stabilimento di una multinazionale farmaceutica tedesca, a una rete di piccole aziende e alla ristorazione. Molti dei suoi abitanti lavorano nei bar, ristoranti e alberghi di Barcellona, in grande crescita – almeno fino all’attentato jihadista sulla Rambla – per il boom del turismo. Rubí è diventata famosa anche per essere l’unico municipio catalano che ha celebrato l’anniversario della Costituzione spagnola. L’anno scorso all’inizio di dicembre. Sugli scalini del palazzo comunale un gruppetto di nazionalisti hanno bruciato una copia della Costituzione mentre la sindaca socialista, Ana Maria Martínez, ne declamava alcuni articoli. Da quel giorno Martinez è diventata una piccola eroina a Madrid, come l’unico sindaco che ha avuto il coraggio di affrontare a viso aperto l’onda indipendentista montante. Montse Triviño è figlia di immigrati. Nacque qui ma suo padre era andaluso e sua madre galiziana. 44 anni, due figli, marito commerciante, Montse ha sempre lavorato come colf, cameriera o barista anche se adesso è disoccupata. E dice che con suo marito hanno parlato di andare via se vince l’indipendenza. A Montse, l’immersione scolastica nel catalano di Pujol non è mai piaciuta. “Noi a casa parliamo spagnolo. È la lingua nella quale mi hanno educato i miei genitori e io ho educato i miei figli. Certo che mi sento catalana ma soprattutto mi sento spagnola e mi terrorizza l’idea di vivere in un nuovo Stato nel quale mi sentirei un paria. Da piccola, a scuola, prima che imparassi a esprimermi anche in catalano mi chiamavano “charnega” (vocabolo che corrisponde al nostro “terrona”) e ho già sofferto abbastanza. In realtà mi sento straniera nella mia terra. Per esempio quando a calcio gioca la Spagna, i catalani gli tifano contro, sperano che perda. E non puoi mica mettere la bandiera sul balcone perché te ne dicono di tutti i colori. Adesso c’è il boom dell’indipendenza, non si parla d’altro, e tanti sono convinti che le cose andranno meglio se la Catalogna diventerà una nazione separata. Io non ne sono per niente convinta. Saremo fuori dall’Europa e tante aziende se ne andranno. Non sarà facile attirare nuovi investimenti e di sicuro aumenteranno le tasse. Ma questi non ci sentono, si immaginano l’arrivo di una arcadia ricca e felice perché oggi, secondo loro, la Spagna opprime, rapina e offende la Catalogna”.

 

“Anni di indottrinamento culturale”

 

Maria Domingo ha 22 anni, frequenta il quarto anno di Scienze politiche all’Università autonoma di Barcellona e fa parte di una associazione anti-indipendentista che si chiama “Sociedad civil catalana”. Maria è la rappresentazione perfetta della profondità della frattura, politica, sociale, familiare, che vivono i catalani. La famiglia della mamma di Maria è di destra nazionalista, il PdCat di Artur Mas, e sono tutti indipendentisti. La famiglia del padre è andalusa e sono comunisti. Ora i comunisti, ossia Izquierda Unida sono alleati con Podemos di Pablo Iglesias, appoggiano lo svolgimento del referendum ma sulla secessione si astengono. Lei, come abbiamo detto, milita con gli unionisti. Maria vive a Sant Cugat, un fortino nazionalista nella periferia industriale di Barcellona. E sostiene che da qualche tempo l’atmosfera, soprattutto all’Università, si è andata sempre più radicalizzando. Lei ha subito minacce verbali e tentativi di aggressione fisica. La sua associazione all’Autonoma viene presa di mira dai gruppi secessionisti dell’estrema sinistra catalana. “Non vado alle feste di paese – racconta Maria -, evito i locali, bar o discoteche, per timore che succeda qualcosa, che qualcuno possa aggredirmi per il mio impegno politico unionista. Purtroppo c’è molta intolleranza”. Maria denuncia anche anni di “indottrinamento” nella scuole pubbliche a favore della catalanità, libri di testo che danno per scontato la Catalogna come nazione, imposizione della lingua, persecuzione di chi chiede più ore di spagnolo nelle classi, il divieto in alcuni collegi scolastici di usare lo spagnolo, le cosiddette multe linguistiche ai negozi che non sostituivano le insegne in lingua spagnola. Come le difficoltà per la libera circolazione dei professionisti. È successo – aggiunge – con medici di altre regioni di Spagna che non possono trasferirsi a lavorare in Catalogna se non hanno un buon livello di conoscenza della lingua locale. E conclude: “Penso che la Catalogna vende all’esterno una dimensione internazionale ma in realtà guarda solo il suo ombelico. L’indipendenza per un giovane è pericolosa perché in Europa nessuno la appoggia e potremmo essere costretti a restare fuori dall’Unione mentre io vorrei poter studiare in altri Paesi, fare un master lontano da qui. La separazione dalla Spagna non mi mette le ali, me le taglia”.

 

Le conseguenze sull’economia

 

Uno degli aspetti più discussi e concreti della separazione sono gli effetti sull’economia di Spagna e Catalogna. Per Madrid il prezzo è secco: perderebbe il 20% del suo Pil nazionale e 16 miliardi di euro di contributi che incassa con le tasse. Catalogna, Baleari e Madrid, sono le tre comunità regionali più ricche e quelle che versano allo Stato più di quanto ricevono. Ma le conseguenze per la Catalogna di un distacco non negoziato con la Spagna quali sarebbero? Qui i conti sono più complicati soprattutto perché secessionisti e unionisti si affidano a previsioni molto diverse, a seconda delle convenienze. Se restiamo alla pragmatica tutti gli economisti sono d’accordo che economicamente indipendente il nuovo Stato potrebbe sopravvivere senza problemi. La Catalogna ha più o meno gli abitanti della Svizzera, circa 7,5 milioni, una dimensione territoriale simile a quella del Belgio, e un Pil procapite come quello della Norvegia. Il guaio però potrebbe essere la transizione di una rottura violenta con Madrid. La prima conseguenza infatti sarebbe l’uscita dall’Europa e dall’euro, e la perdita della rete di sicurezza che rappresenta per i sistemi bancari la Banca centrale europea (Bce). Bruxelles ha anche chiarito, a suo tempo alla Scozia e adesso alla Catalogna, che una scissione non concordata da uno Stato membro dell’Unione significa automaticamente l’uscita dalla Ue e la perdita dei fondi strutturali e di investimento europei. Altro problema per la Catalogna potrebbe essere il cosiddetto “effetto frontiera”.

Oggi la Catalogna esporta prodotti in Spagna per 44 miliardi di euro all’anno, il 65% di tutto l’export. In Europa per 37 miliardi e nel resto del mondo per 22 miliardi. Non facendo più parte della Ue il suo export nei Paesi europei soffrirebbe come minimo nuovi dazi mentre con la Spagna si teme addirittura un boicottaggio. Per questi motivi, alcuni istituti di analisi economica, come quello del Credit Suisse, dipingono scenari a tinte fosche. Con rischi di isolamento economico e impoverimento. Tutti paesaggi che i responsabili del governo catalano, anche prima di aver lanciato il treno dello strappo da Madrid a tutta velocità sul binario dell’indipendenza, respingono come fallaci perché sono convinti, o forse illusi, che alla fine tutto il mondo prenderà atto dell’irreversibilità di questo ethos catalano verso la libertà e non cambierà nulla. “Resteremo in Europa e nell’Euro”, dicono. Di economia parliamo a Vic con Joaquim Comilla. Imprenditore, 77 anni, e proprietario, insieme alla moglie e al figlio, di una delle più antiche aziende alimentari della zona. “Esistiamo da 169 anni”, dice orgoglioso mostrando i quadri di tutti quelli che lo hanno preceduto alla guida della rinomata “Casa Riera Ordeix”, fabbrica di insaccati dove si produce la Llonganissa, il salame doc di Vic. “Le grandi industrie – dice Comilla -, le multinazionali che risiedono in Catalogna osteggiano l’indipendenza per le conseguenze che temono. Mentre noi piccoli o medi siamo a favore. La mia famiglia è favorevole. D’altra parte sono anni che soffriamo il boicottaggio da parte della Spagna dei nostri prodotti, abbiamo perso clienti da quando è iniziato con più forza il procès, l’idea della disconnessione. Persone che dicono “Questo è catalano? Allora non lo compro”. Un amico una volta mi raccontò che una signora a Madrid si confuse leggendo una etichetta e gli chiese: “È scritta in catalano? Non la compro”. E lui: “Ma no signora è un prodotto portoghese”. Abbiamo già perso molte vendite in Spagna – assicura Comilla – ma le abbiamo sostituite con le vendite in Europa. Tranne l’Italia, per ovvie ragioni, andiamo benissimo in Francia, Germania, Inghilterra. Quindi come catalano da generazioni come potrei essere contro l’indipendenza? Sarei stupito visto che ne soffro già i problemi con la riduzione delle vendite in Spagna”. “Vede – aggiunge – bisogna anche considerare che adesso le questioni economiche sono secondarie.

La Catalogna indipendente oggi è soprattutto un sentimento, una passione, un’idea di comunità da ricostruire. Il centralismo di Madrid ci offende continuamente e in tanti siamo stufi. Ci vogliono in Spagna solo per pagare le tasse, in realtà ci disprezzano e quando possono farci del male sono contenti di farlo. Per farmi capire faccio un esempio con l’atteggiamento degli spagnoli verso un’altra comunità autonoma storica, i baschi. Se lei apre due ristoranti a Siviglia sulla stessa strada. E in uno c’è scritto “cucina basca” e nell’altro “cucina catalana”, il primo si riempie, il secondo resta vuoto. Lontano da Barcellona non ci amano”. Poi anche con Comilla ritorna il tema del sentirsi colonia in Spagna. “Il nostro con Madrid è come un matrimonio tra due persone che non si sopportano più. È meglio per tutti che ognuno vada per la sua strada. Tutto questo naturalmente è successo per mancanza di dialogo. Quando il presidente della Generalitat era Artur Mas andò a Madrid a incontrare Rajoy e proporgli un nuovo patto fiscale. Se Rajoy invece di chiudergli la porta sul naso avesse accettato di discuterne probabilmente oggi non staremo parlando di referendum. La gente qui si è arrabbiata. Abbiamo sopportato fin troppo. Lo stesso nel 2010 quando si negoziò il nuovo Statuto di autonomia che venne approvato dal Parlamento e poi stracciato dal Tribunale costituzionale. Col nuovo Statuto saremmo rimasti in Spagna altri cinquant’anni. Ma dopo che lo bocciarono qui è risorto sempre più forte il desiderio del distacco”. Altri due temi preoccupano Joaquim Comilla. Il primo è quello del quale si vergogna la sua generazione di catalani ed è la morte politica di Jordi Pujol, il grande creatore del nazionalismo catalano moderno, eletto e rieletto presidente della Generalitat per 23 anni di seguito, dal 1980 al 2003, ma finito poi insieme alla moglie e ai figli in una grande inchiesta di corruzione per numerosi milioni di euro sottratti al fisco e conservati nei paradisi fiscali. L’altro è l’Europa. “Mi delude molto – dice – l’atteggiamento dell’Europa in questa nostra vicenda. Rischiamo di restarne fuori e non capisco come i legislatori di Bruxelles non abbiamo previsto soluzioni diverse, un modello, per questo tipo di crisi secessioniste. Noi o gli scozzesi potremmo essere come Portorico con gli Stati Uniti, uno Stato associato, senza dover ottenere da Madrid il permesso per restare nell’Unione”.

 

Gli errori di Rajoy e la politica della disobbedienza

 

Molti sono convinti che il governo centrale a Madrid abbia commesso soprattutto errori dopo che una coalizione secessionista aveva vinto le elezioni regionali del 2015 in Catalogna. Il sistema elettorale spagnolo premia i partiti forti nelle aeree rurali, piuttosto che nelle grandi città. Ottenere un seggio a Barcellona costa più voti che a Vic. Anche per questo nel Parlamento regionale, una coalizione trasversale indipendentista formata dalla vecchia Convergència di Pujol e Artur Mas – la destra – e da Esquerra Republicana – la sinistra – appoggiata dall’esterno dalla Cup, ha il 47,8 dei voti ma la maggioranza assoluta dei seggi. Una maggioranza politica ma non una maggioranza sociale che però ha permesso a Puigdemont, e al suo vice e uomo forte del governo, Oriol Junqueras, di portare la sfida separatista fino alle ultime conseguenze. Secondo i sondaggi oggi la scelta indipendentista contro quella unionista al referendum avrebbe la possibilità di prevalere per una manciata di voti, 52 a 48 più o meno. Se Rajoy, invece di opporsi frontalmente alla richiesta del “diritto a decidere” il loro futuro attraverso una consultazione popolare del governo catalano, avesse scelto, come il Parlamento britannico con la Scozia, di accettare la sfida sul terreno elettorale, avrebbe probabilmente vinto. Una campagna della paura, come quella inglese in Scozia, avrebbe potuto facilmente rovesciare il risultato attraendo alle ragioni spagnole gli incerti, invece di allontarli.

La Costituzione spagnola non prevede referendum di autodeterminazione ma una strada si poteva trovare. Visto che proprio il fatto che non lo preveda è ciò che rammenta ai catalani il nazionalismo insolente, castigliano e borbone, della Spagna “Una, grande e libera”, indivisibile e imperiale, com’era nell’ideologia del dittatore Franco. Carme Vilarò è una maestra ma soprattutto a Vic è la presidente dell’Assemblea nazionale catalana (Anc), il movimento della società civile nato nel 2012 che ha come primo e unico obiettivo il referendum per l’indipendenza, l’ultimo atto del diritto all’autodeterminazione. “La lingua è il nostro gioiello. È cio che ci tiene uniti e ci fa sentire una nazione. Ricordo ancora quando ero bambina, durante la dittatura, l’insegnante che ci obbligava in classe a parlare castigliano. Io non capivo niente. Confondevo il suo suolo con il sole. Perché a casa parlavamo catalano. Lo spagnolo serviva solo quando incontravi gli agenti della Guardia civil o dovevi andare alla Posta. Il mio primo anno da maestra di catalano nel 1980 fu eroico. Non avevamo nulla per insegnare. Non c’erano libri di testo, grammatica, favole per i bambini. Un metodo. Oggi – aggiunge orgogliosa – ai ragazzini che vengono dalla Siria insegnamo a parlare catalano in tre mesi.

 

La Catalogna ce l’abbiamo nel cuore, è una fiamma che arde. Sono andata a fischiare Rajoy e il re alla manifestazione per le vittime dell’attentato. Li ho fischiati perché non dovevano venire. Che vogliono con le loro bandiere spagnole? Quella non è la nostra bandiera e lui non è il nostro re. Siamo repubblicani. Loro vogliono ancora spagnolizzarci, come diceva Wert, l’ex ministro dell’Istruzione, che ha cercato di imporci di nuovo lo spagnolo. Ma non ci riusciranno”. La convinzione di Carme, mentre rovescia una schweppes in tavolino di un bar sotto il countdown del referendum, è che il momento è adesso. “Hanno i cannoni e anche un esercito ma non possono usarli”. “E se dovesse vincere il “no”, noi continueremo. Vogliamo soltanto votare, è la democrazia”. I due figli di Carme sono musicisti. Un ragazzo e una ragazza entrambi violinisti. Adesso vivono a Basilea e a Berlino. E non potranno votare. “La posta è spagnola e non ce la prestano”. Sono indipendentisti anche loro? “Per forza, altrimenti sarebbero diseredati”. Ride. Un altro modello a cui si guarda da Vic sono le Repubbliche baltiche. “Nascerà una nuova piccola nazione nello spazio europeo”. Ma la Spagna vi boicotterà, e oggi la maggioranza dell’import e dell’export è con la Spagna. “Anni fa accadde con il Cava, lo champagne catalano. Mi ricordo che noi per prenderli in giro facemmo le magliette con scritto “boicottami”. Viviamo in un mondo globale, se gli spagnoli ci boicottano, commerceremo con qualcun altro”. Più tardi, davanti a un piatto di pasta, la collega di Carme, Isabel, segretaria dell’Anc, svelerà la fermezza con la quale si avviano a compiere il salto. “A Madrid non hanno capito niente – dice Isabel – qui è tutto pronto. Sono anni che ci prepariamo. Con l’autonomia abbiamo già costruito un altro Stato. Istruzione, sicurezza, trasporti, sanità, ci manca soltanto il ministero delle Finanze. Si sono sbagliati, noi siamo pronti a staccarci. Ci basta disobbedire. E un proverbio catalano dice che quando il tuo nemico si sbaglia, non lo devi distrarre”.

“I catalani sono totalitari”

Nessuno dei due grandi giornali di Barcellona, La Vanguardia e El Periódico, vede con simpatia la ribellione guidata da Puigdemont e Junqueras. Tutti gli altri giornali spagnoli sono fortemente contrari. I commenti di solito sono molti duri. L’accusa principale al governo catalano è di essere antidemocratico, di sfidare la Costituzione, e di aver scelto un cammino che li porterà al disastro, per aver imposto un referendum che non si sa neppure se riusciranno a far svolgere con un minimo di garanzie elettorali. Ana Moreno è diventata famosa perché ha denunciato al Parlamento europeo l’immersione in catalano nelle scuole materne e elementari. Andalusa, 37 anni, due figli di 5 e 7 anni, racconta che rimase sconvolta la prima volta che portò suo figlio a scuola. “Io e mio marito ci siamo trasferiti da Granada in Catalogna per ragioni di lavoro.

Abbiamo cresciuto i nostri figli parlando spagnolo ma portandoli a scuola dovevo lasciarli nelle mani di un insegnante che parlava una lingua che loro non capivano. Ma il peggio arrivò dopo, con l’inizio delle elementari. Alle elementari in tutte le scuole pubbliche ci sono solo due ore di spagnolo alla settimana, come l’inglese. Così cercai altre soluzioni. Ma erano solo scuole private che non potevo pagare. Decisi di presentare una denuncia contro il collegio di mio figlio per ottenere più ore. Vinsi. Il tribunale riconobbe un 25% del totale, ossia cinque ore alla settimana. E iniziò il disastro. La scuola si oppose perché così avrebbe dovuto dare una materia in spagnolo a tutti i bambini e il direttore andò in tv a dire che c’era una famiglia nel paese che pretendeva il bilinguismo e che non bisognava permetterlo. Poi scoprii che il mio nome era stato reso pubblico. E iniziò il boicotaggio. Il negozio che avevo nel paese fallì. Dovetti chiuderlo. Al collegio comprarono tutte magliette uguali e le distribuirono ai bambini tranne al mio per fare in modo che il primo giorno di scuola venisse identificato il figlio della famiglia che aveva chiesto più ore di spagnolo. Dovemmo lasciare il collegio. Adesso mio figlio e mia figlia vanno a scuola a 30 km da casa, dove non li conosce nessuno. Ma io non ho nulla contro il catalano, il mio problema era soltanto far avere ai miei figli la conoscenza sufficiente in spagnolo per quando saranno grandi. Con due ore a settimana non sanno scrivere, fanno errori di ortografia, non hanno un vocabolario adeguato, studiano letteratura catalana e non letteratura spagnola, che è molto più importante “. L’accusa di trattare nelle scuole lo spagnolo come una lingua straniera la condivide anche Rafael Avila, un professore di Liceo. “È un peccato, perché quando diventano grandi i nostri studenti hanno difficoltà con la lingua che si parla nel Paese in cui vivono: la Spagna “.

 

La forza della legge

 

La strategia di Rajoy contro il governo catalano prevede, attraverso l’azione del Tribunale costituzionale, sanzioni legali ed economiche. I promotori del referendum potrebbero essere condannati a pagarne personalmente tutte le spese, oltre a perdere per inabilitazione gli incarichi amministrativi ai quali sono stati eletti. L’ultimo passo di Madrid per fermare l’indipendenza potrebbe essere anche la sospensione dell’autonomia catalana, c’è un articolo di legge che lo prevede. Teresa Freixes, 67 anni, docente di diritto costituzionale, catalana di Lerida, “catalana – ci tiene a precisarlo – da numerose generazioni”, è una fustigatrice della soluzione promossa da Puigdemont. “È un atto senza alcun sostegno legale. Va contro la Costituzione spagnola, contro il diritto dell’Unione europea e anche contro il diritto vigente in Catalogna.

 

Qui abbiamo un Parlamento con una maggioranza secessionista alla quale però non corrisponde una maggioranza sociale per effetto della legge elettorale. Questo è un problema molto serio dal punto di vista della legittimità del procès. D’altra parte si pretende di fare il referendum illegalmente mentre ci sarebbe un modo per farlo legale, bisognerebbe modificare la Costituzione, ma vogliono imporre la loro maniera di poterlo fare. Penso che dobbiamo costruire l’Europa, non disgregarla in piccole comunità nazionaliste. E non sono per niente convinta che sia facile per una Catalogna indipendente restare in Europa. Perché questa possibile scissione territoriale spaventa altri Stati europei, per esempio l’Italia che può temere per il Veneto. E se gli altri paesi europei accettassero che questo può accadere in Spagna dovrebbero accettare anche che potrebbe accadere nei loro. Innescando una spirale pericolossima. In ogni caso, dal punto di vista politico, è una storia senza senso. Perché non è possibile costruire un nuovo Stato democratico contro lo stato di diritto e la democrazia, che è quello che sta per succedere qui.

 

Non ci dicono neppure che tipo di paese vogliono costruire dopo. Ma quello che è più importante secondo me è che andiamo verso un referendum senza le minime garanzie democratiche. Non c’è neppure una commissione di controllo sui risultati e non essendo una consultazione legale non ha neppure alcuna legittimità. È una farsa. Altro esempio: non è stato stabilito neppure un quorum minimo di votanti per la sua validità. Un referendum per formare un nuovo Stato è una decisione molto importante, dovrebbe avere un consenso più ampio di una maggioranza relativa. Sono certa che non ci sarà nessun referendum. L’Alta corte lo sospenderà dopo il ricorso del governo centrale. Dopo la sospensione ogni atto a favore sarà illegale e punibile per legge per la via penale e per quella amministrativa. Ma quello che mi preoccupa di più è il futuro perche l’impossibilità di fare il referendum creerà una grande frustrazione in tutti quelli che ci hanno creduto in buona fede. Puigdemont e Junqueras hanno la responsabilità di aver illuso i loro elettori. Come ricostruiremo il tessuto sociale che hanno rotto deliberatamente e che sta causando tanti problemi nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole? Hanno scelto una strada che porta al precipizio”. Però tra i promotori della scissione, come Marc Sardà, c’è chi sostiene che legalità e giustizia non necessariamente coincidono e che se la legalità non è giusta bisogna disobbedirla.

 

L’eredità del passato

 

Altro tema che duole agli unionisti è quello di essere stati fino ad oggi abbandonati dal governo centrale di Madrid. Da tutti i governi. Spesso per formare esecutivi nazionali i partiti di Madrid, dai socialisti ai popolari, hanno avuto bisogno dell’appoggio dei deputati eletti dai partiti nazionalisti catalani. E ogni volta, per ottenerne l’appoggio, hanno ceduto competenze a Barcellona. La polizia autonomica, l’istruzione, la tv. Allargando ogni volta di più il fossato fra gli interessi del governo centrale e quelli del governo autonomico che in realtà non ha mai nascosto come il vero obiettivo finale del processo democratico iniziato quarant’anni fa fosse il “distacco”, la separazione da Madrid per le ragioni storiche che risalgono a trecento anni fa. “Mio padre era giudice di pace qui a Vic – racconta Josep Llonch, 76 anni -. Giudice della repubblica, quella che nacque nel 1931 quando il re Alfonso XIII si esiliò dalla Spagna. Quando Franco vinse la Guerra civile, prima che le truppe franchiste, che poi erano sanguinari soldati marocchini, conquistassero tutta la regione, i repubblicani partirono per rifugiarsi in Francia che non era ancora stata invasa dai nazisti. Lo misero in un campo di concentramento ma poi tornò in Spagna, dove venne processato. Non aveva delitti di sangue e venne rilasciato. Mio padre aveva una impresa di pittura di appartementi. I primi tempi furono durissimi perché era compromesso con la Repubblica sconfitta e nessuno gli dava lavoro Io nacqui un anno dopo, nel 1941. Ho vissuto metà della mia vita sotto la dittatura spagnola. Sono repubblicano da sempre e anche nel ricordo della mia famiglia, dei nostri martiri, spero che questa volta riusciamo diventare davvero una nazione e costruire la nostra Repubblica”.

 

Qualcuno guarda a Montserrat

 

L’abbazia benedettina di Montserrat, dove si conserva la Madonna nera patrona della Catalogna, è un luogo di incontro e dialogo. Divenne importante durante la dittatura per l’azione di difesa e protezione degli oppositori politici. Oggi l’abate Soler e i cinquanta monaci che vivono nel monastero sulla montagna hanno manifestato il loro appoggio al “diritto a decidere”, alla possibilità che i catalani possano dirimere le loro differenze attraverso un voto referendario. In un paesaggio così povero di sostegni esterni al governo locale quello di Montserrat, anche se tiepido, non è da sottovalutare. C’è chi giura che ci sono due Paesi che riconoscerebbero subito una Catalogna indipendente. Uno è Israele, per ragioni strategiche mediterranee, e perché la Spagna è stata sempre un Paese considerato filo-arabo. L’altro è il Vaticano di Papa Francesco. Uno dei politici catalani che sale spesso sul monte a incotrare l’abate è Oriol Junqueras, il leader di Esquerra Republicana. Junqueras è colui che, appena eletto il governo secessionista due anni fa lanciò la sfida: “Non voglio che la mia gente divida il suo futuro con gente che non la rispetta, che non la vuole, che non la ascolta”. Se le cose dovessero mettersi davvero male oggi c’è anche chi ipotizza – ma a Montserrat negano – l’idea di un governo catalano in esilio nell’abbazia.

 

“Siamo capaci a fare da soli”

L’attacco dei terroristi dell’Isis a Barcellona e Cambrils ha avuto l’effetto postumo di rafforzare l’autostima catalana. Durante la manifestazione in omaggio alle sedici vittime degli attentati lungo il Paseo de Gracia mentre fischiavano il re e Rajoy applaudivano i Mossos d’Esquadra, la polizia della Generalitat. E si è chiuso di nuovo il cerchio della comunità in cerca di nazione. Dalla Spagna hanno criticato i Mossos che volevano fare tutto da soli contro il terrorismo, mentre loro li hanno osannati come nuovi eroi della libertà catalana. Ora, lo scontro finale è iniziato. Jofre Bandolet compirà diciotto anni il giorno del referendum e voterà per l’indipendenza a Vic. Meno di cento chilometri più a sud, a Rubí, un suo quasi coetaneo, Eric Laserna, 20 anni, studente universitario di Storia, invece voterà contro. «Vivo la prospettiva dello Stato catalano come un passo indietro – dice Eric -, una forma di chiudersi guardando al passato in un mondo sempre più globale». All’opposto il poeta catalano Lluis Solà è invece certo che la separazione dalla Spagna avrà un effetto molto produttivo liberando nuove forze, energie, passioni positive. Il conto alla rovescia è cominciato, Mariano Rajoy farà di tutto per impedire il voto, mezza Catalogna farà di tutto per vincere questa resa dei conti con i suoi fantasmi. «Finalmente saremo liberi», dice Carme davanti al countdown della piazza di Vic, «ormai non possono più fermarci».

 

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