Sul pianeta Marte, tutti contro, nessuno all’opposizione

Francesco Verderami Corriere della Sera 22 giugno 2022

 

Governo, dopo l’addio Di Maio al M5S la crisi non c’è
ma il gioco al centro può accelerare il ritorno al voto

 

Non ci saranno rimpasti né il leader del Movimento potrà presentare una mozione di sfiducia del ministro: significherebbe sfidare lo scudo del Quirinale


Da giorni si era steso lo scudo protettivo del Colle: non sulla tenuta del governo, che non è mai stata in dubbio, ma sulla sua composizione. Come confermava un autorevole ministro, l’addio di Di Maio al Movimento non avrebbe dato vita a un rimpasto «perché nel pieno di un conflitto sarebbe improponibile per il capo dello Stato un cambio in corsa alla Farnesina. È certo, non cambierà nulla». Ma non è che ieri non sia successo nulla.

Da un anno e mezzo Draghi ritiene di essere atterrato su Marte. Pensava di aver visto tutto e invece ha dovuto vivere un altro evento senza precedenti. Nel senso che né Palazzo Chigi né il Quirinale sono riusciti a trovare un precedente simile nella storia dei governi repubblicani: a parte la scissione dal Pd di Renzi (che però non era ministro), non si era mai vista una forza di maggioranza che vota allo stesso modo in Parlamento, si divide in due gruppi ma resta insieme in Consiglio. Con il risultato che ad andare in crisi è un partito senza che entri in crisi l’esecutivo. «Il motivo — spiega Casini — è che sia Conte sia Di Maio hanno una fifa matta del voto anticipato».
Certo, il leader dei grillini avrebbe di fatto ancora due strade: presentare una mozione di sfiducia contro il ministro degli Esteri o chiedere una verifica di governo. Nel primo caso dovrebbe sfidare lo scudo protettivo del Colle, nel secondo dovrebbe vedersela sui numeri con il premier. Perché con la scissione il Movimento non è più il partito di maggioranza relativa e Draghi gli spiegherebbe che comunque dispone ancora di quattro ministri: alla formazione del governo, infatti, Cingolani venne formalmente attribuito in «quota M5S». Resterebbe l’ipotesi di chiedere un passaggio alle Camere dell’esecutivo per certificare la modifica degli assetti, «ma vista la situazione — spiega un ministro — nemmeno l’opposizione ha chiesto finora a Draghi di riferire». E poi la maggioranza è rimasta la stessa: non si è né allargata né ristretta.

Semmai sono cambiati gli equilibri: ora il Carroccio è il partito di maggioranza relativa e il cambiamento avrà un peso quando si discuterà di temi economici e sociali. Ma in questo passaggio di politica estera Salvini è rimasto al fianco del premier. Raccontano da Palazzo Chigi che «durante le trattative sulla risoluzione, mentre il Pd era in chiaro imbarazzo, i capigruppo della Lega sono stati i più netti». E ancor di più lo è stato Di Maio, che ad ogni proposta di riformulazione del documento dei suoi compagni di partito, rispondeva: «Non va bene, bisogna essere più chiari».

Nel fronte dem, autorevoli rappresentanti al governo puntano l’indice contro «un disegno assecondato dal premier, che aveva l’obiettivo di spingere Conte a votare contro la risoluzione. Così da dare a Di Maio la possibilità di rompere sulla guerra e non sul vincolo dei tre mandati». In effetti ieri sera Di Maio, annunciando l’addio al Movimento, ha potuto accusare solo di «ambiguità» il capo dei grillini. A prescindere se sia vera o no questa ricostruzione, resta il fatto che ad accendere la miccia sia stato Conte. Due mesi fa, quando iniziò a criticare l’invio di armi all’Ucraina, Guerini avvisò il Pd: «Guardate che è solo l’inizio». Ma nel suo partito non gli diedero ascolto. Oggi persino esponenti della segreteria dem dicono che «Conte farà la fine di Bertinotti».
Per l’ex premier è una disfatta. Sebbene la scissione rischi di segnare anche chi ha lasciato il Movimento: perché in politica la separazione non prelude mai alla spartizione dei voti ma all’evaporazione dei consensi. Il governo resta in piedi, supererà l’estate e dovrà affrontare le intemperie d’autunno sulla Finanziaria, che Draghi immagina di presentare il 20 di ottobre. Sarà una navigazione difficile per la crisi economica e le pressioni dei partiti in vista delle urne. Forse allora Conte proverà a scartare, ma nel Pd sostengono che «sarà tardi per trasformarsi nel Melenchon italiano, perché quel fronte sarà stato intanto conquistato dai vari Di Battista». Semmai la mossa di Di Maio aprirà i giochi al centro. E per impedire che quell’area si consolidi, gli avversari cercheranno di andare al voto prima di maggio. In ogni caso ieri è stata la fine di un’epoca.

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