Draghi, da tecnico economico a tecnico militare

Fausto Bertinotti il Riformista 2 Luglio 2022
Un colonnello solo perché i generali stanno al di là dell’Atlantico

 

La metamorfosi di Draghi, da tecnico della finanza a tecnico militare.
Il colonnello Draghi. C’è una metamorfosi in corso, per ora è ancora appena iniziata. Essa riguarda direttamente il nostro presidente del Consiglio, ma parla di un mutamento nelle attese del sistema rispetto alla sua stessa dirigenza politica.

 

Il dato costante sul quale si producono e si modificano le tendenze che costituiscono e modificano quest’ultima è la doppia crisi della politica e della democrazia. In Italia, esse risultano peraltro sempre più radicali tanto da rappresentare, come Paese, un caso.
Esattamente è il caso contrario e opposto a quello che così si definì durante l’ascesa democratica e il primato della politica negli anni Settanta in Italia. Le due crisi, quelle della democrazia e quella della politica, lasciano che sia il sistema a plasmare, secondo le sue esigenze di volta in volta preminenti, il profilo del governo e dei suoi governanti. Draghi è arrivato al governo del Paese dopo un’ennesima crisi delle politiche di governo che annunciava l’irrompere sulla scena del rischio immanente dell’instabilità politica e questo proprio mentre l’Europa reale aveva configurato un piano di azione per impedire che la crisi, acutamente accentuata dall’emergenza del coronavirus, precipitasse in modo irreparabile. Draghi, con il suo whatever it takes, pronunciato dieci anni fa, alla Global Invest Conference di Londra, ha assunto persino un valore simbolico, di riconoscimento di una certa politica dell’euro, quella della necessità di passare “dal bombo all’ape”.
Dopo il drammatico quanto nascosto fallimento delle loro politiche di austerity, le élite europee, sospinte dalla ricerca di un’economia del dopo pandemia e dalla necessità indotta dal nuovo dogma della ripresa, hanno deciso una nuova rotta e si sono incamminate lungo i sentieri di politiche espansive rigorosamente però prive di qualsiasi riforma sociale. Draghi ne è stato ancora una volta tra i protagonisti, insieme alla Bce e alla Commissione europea. L’investitura da presidente del Consiglio ha ricavato, da questo suo essere il Papa straniero, la sua propria autorità che di fatti è diventata per la politica del governo e per le forze politiche che lo sostengono (ma anche tra quelle che non lo fanno formalmente) a indiscutibile. Sotto la sua guida il Next Generation Eu è diventato, secondo Ursula von der Leyen, addirittura un’opportunità “per fare dell’Italia un motore di crescita in Europa”.
Il Pnrr ne è diventato il teatro, malgrado la povertà si allarghi ancora spaventosamente nella realtà, le diseguaglianze si accrescano, i salari e gli stipendi vedano demoliti il loro potere d’acquisto e nel Paese striscia qualcosa che assomiglia a una crisi di civiltà. Nessuna delle molte domande che animano e si sviluppano in parti importanti della società civile trova una risposta. Il pilota automatico, minacciato da Draghi, non sarebbe stato sufficiente, ma ora agisce nascostamente e pienamente perché sorretto e coperto da un’autorità di governo italo-europea. Un’autorità che si costituisce su una base tecnico-oligarchica, insieme causa ed effetto tra la crisi democratica del Paese. Se ce ne fosse bisogno basterebbe l’impressionante rifiuto alla partecipazione al voto anche alle ultime amministrative in tanta parte della popolazione a testimoniare direttamente la profondità di questa crisi. Ma è la guerra che cambia il quadro. L’imprevisto è precipitato dall’esterno e ha reso il quadro in atto non più sufficiente, neppure per chi lo ha forgiato, non più sufficiente per il sistema economico e sociale europeo che si trova esposto al soqquadro geopolitico che sulla guerra prende il largo. La politica internazionale, non più solo i processi interni alla globalizzazione capitalistica e alle sue contraddizioni, ai rapporti interni al capitalismo finanziario globale, irrompe sulla scena e la modifica.

Il pilota automatico, cioè le misure di razionalizzazione senza riforma, seppure modificato dalla sua sussunzione nella nuova autorità di governo, non basta più. C’è la guerra, ci sono gli Stati, ci sono le aree geopolitiche in competizione tra loro e ci sono le conseguenze terribili del conflitto militare, della guerra. L’autorità è chiamata allora alla metamorfosi. Riesce ancora a scartare la grande politica, cioè la scelta tra la partecipazione alla guerra, o almeno alla sua cultura politica e al contrario le politiche di pace. Queste ultime richiederebbero un radicale cambio del paradigma, troppo impegnativo, troppo difficile, troppo rischioso, meglio lasciare questo terreno al pontefice. Ma altre scelte rilevanti, sebbene meno impegnative di questa, incombono necessariamente. L’invio o no delle armi è stato un banco di prova, banco di prova saltato a piè pari come se quella del governo fosse una scelta obbligata, senza saper rispondere alla domanda da chi e perché. E ancora è aperta una grande questione di collocazione internazionale dell’Europa e del Paese. Lo avvertono le parti più attente della cultura politica e della diplomazia. La domanda è irrinviabile, le si spingono verso non dico la neutralità, che sarebbe l’unica vera scelta di civiltà per l’Europa, ma almeno verso l’autonomia, oppure verso la dipendenza dagli Usa in una Nato governata da questi ultimi come fosse una dependance
Il governo Draghi ha scelto la seconda, si è fatto compiutamente e organicamente atlantico. In memore di tutta la storia diplomatica e di politica estera che hanno attraversato l’Italia nel dopoguerra. Si riunisce la Nato e dicono che così si aggiorni, l’aggiornamento consiste nel dichiarare la Russia come il nemico tout court e l’oriente come un mondo avverso. Si decide come decidono i funzionari, ma si indossa la divisa a modificarne la funzione. Nell’ultimo dibattito, si fa per dire, alla Camera dei deputati, il presidente Draghi ha lasciato la lettura del testo e ha parlato a braccio, come a voler segnalare il cambio della propria stessa natura. Lo ha fatto per assumere pienamente il linguaggio della guerra, persino nel tono, nella postura. Vincere. La metamorfosi avanza e costituisce un passaggio dal tecnico dell’economia e della finanza al tecnico della guerra. Un Draghi anche colonnello dunque. Colonnello solo perché i generali stanno al di là dell’Atlantico.

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