Riforma legge elettorale, confusione alle stelle, ma la Meloni è determinante

Roberto Gressi Corriere della Sera 10 luglio 2022
Le mosse i calcoli incrociati sulla legge proporzionale.
E il Rosatellum penalizza Meloni

 

Fratelli d’Italia avrebbe meno seggi all’uninominale rispetto a Lega e Forza Italia: ecco il vulnus che frena il dialogo per un accordo sulla nuova legge elettorale


Dire che personalmente si stanno cordialmente antipatici sarebbe il minimo sindacale. Dire che si disprezzano, più all’interno dei presunti schieramenti che tra presunti avversari, sarebbe probabilmente politicamente scorretto, ma assai più vicino alla realtà. Quasi un anno e mezzo di governo di unità nazionale non solo non è bastato a legittimarsi reciprocamente, compreso con chi, come Giorgia Meloni, è restato all’opposizione senza fare veri sfracelli, ma solo a prendersi le misure per la battaglia finale: fatta di furbizie, finte amicizie, coltelli sotto il tavolo, promesse e inganni.

È in questo clima in cui nessuno si fida di nessuno, soprattutto dei fratelli, che si gioca, per la prima volta con qualche probabilità di successo, la partita per cambiare la legge elettorale. Guardiamola la norma attuale. Un misto robusto di collegi uninominali, con il segno del maggioritario, mescolati con una base proporzionale. Dare tutta la colpa del suo fallimento all’autore, Ettore Rosato, allora del Pd e ora di Italia viva, sarebbe una facile ipocrisia. Il giorno dopo il voto la Lega di Matteo Salvini andò a governare con i nemici guidati da Luigi Di Maio, allora Cinque Stelle. Poi l’estate del Papeete, e ancora Giuseppe Conte capo di un esecutivo con il Pd, prima che Sergio Mattarella chiamasse Mario Draghi a cercare di portare l’Italia fuori dalle secche del Covid, mai domato, e della crisi economica. In mezzo una girandola di cambi di casacche tale da far pensare che la conquista del voto dei cittadini non sia quasi nulla rispetto ai cambi di passo che si possono fare dopo, pur con tutto il rispetto dell’assenza di vincolo di mandato per i parlamentari, garantita dalla Costituzione.

Cercare ora di cambiare la legge elettorale in chiave proporzionale, come molti provano a fare, per quanto difficile, sarebbe la presa d’atto onesta di uno stato di fatto: le coalizioni non esistono, non si nutrono di progetti comuni e di stima personale, stanno in piedi a stento per puri motivi di interesse, per di più con un governo esposto al vento della crisi. E relativamente poco importa se ad aprirla saranno l’annaspare disperato dei Cinque Stelle o le illusioni di rimonta della Lega.

Chi è a favore del cambio della legge elettorale? Dirlo con certezza è più facile in teoria che in pratica. Sul fronte c’è il Pd, alla ricerca di un’edizione più credibile del campo largo, che gode della benedizione del cambio di passo di un bipolarista come Romano Prodi. Ci sono i Cinque Stelle di Giuseppe Conte, che però sono alla ricerca di una proporzionale secca. Ci sono i cosiddetti per comodità centristi, che vanno da Carlo Calenda a Giovanni Toti, da Luigi Di Maio all’osservatore interessato Giuseppe Sala, fino ai mille rivoli, senza necessariamente includere Matteo Renzi, che ha sempre nella manica le carte per sparigliare. Ma, in ogni caso, i centristi tutti hanno chiaro che mai e poi mai potrebbero digerire una soglia di sbarramento alta, meno che mai addirittura del cinque per cento.

Ma, sorpresa delle sorprese, una legge proporzionale, condita con un premio di maggioranza, potrebbe piacere a Giorgia Meloni. E quindi, abbarbicati sul fronte del no, resterebbero Matteo Salvini e Forza Italia, anche se lì, Renato Brunetta in testa, i governisti sono di altro avviso. Ma perché il no di Silvio Berlusconi e della Lega? I conti sono presto fatti. Con la norma attuale potrebbero sedersi al tavolo del centrodestra per affrontare la più sanguinosa delle battaglie: quella della spartizione delle candidature nei collegi uninominali. E lì l’arma di fine di mondo ha un nome, si chiama media ponderata. Si mettono insieme il voto del 2018, dove Fratelli d’Italia contava quasi niente, le elezioni europee, quando la Lega trionfò, e buoni ultimi i sondaggi, che vedono Giorgia Meloni fare un solo boccone degli alleati. E così, alla prova del voto, Salvini e Forza Italia potrebbero saccheggiare l’alleanza, facendo il pieno soprattutto al Nord. Un modo per compensare il taglio dei parlamentari ma anche per sfruttare il clima europeo e italiano che si oppone a Meloni premier e che proprio gli alleati astutamente e in silenzio cavalcano. Per altro verso con la nuova, eventuale, legge elettorale, Fratelli d’Italia potrebbe non solo evitare di fare il portatore d’acqua, panni nei quali è difficile immaginare Giorgia Meloni, ma anche giocare in campo aperto alla ricerca di contatti che superino i confini di un’alleanza sdrucciolevole.

Anche il centrosinistra, o l’alleanza democratica e progressista, la si chiami come si vuole, ha i suoi evidenti problemi. Ed Enrico Letta tutto desidera piuttosto che vanificare l’eventualità, non improbabile, che il suo partito, almeno in percentuale, risulti primo in Parlamento. Così come l’ambizione dichiarata di tanta parte dei centristi, che vogliono destrutturare i poli per dare all’Italia un governo che li sorpassi, ha bisogno di una legge elettorale che contribuisca a dare un taglio di discontinuità alla nuova legislatura. Resta il problema dei tempi, e mentre le trattative sotterraneamente continuano, oh se continuano nonostante gli sdegnati rifiuti, ci sta che arrivino soprattutto segnali di frenata. Ma al momento vuol dire tutto e niente: le leggi elettorali si fanno in zona Cesarini, se si approvano troppo presto si sciolgono le Camere e si va a votare, ci sono invece ancora mesi davanti prima di una possibile svolta.

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