Pd, un Congresso che rischia tutti i trucchi e gli errori dei precedenti. E lo stesso esito

 

Stefano Cappellini La Repubblica 29 settembre 2022
 
Leader governisti in fuga dai collegi. E il “deep Pd” frena il ricambio
 
La prima di una serie di inchieste sul partito che esce sconfitto dalle elezioni. Con il 19% i dem restano la prima forza di opposizione in Parlamento. I maggiorenti hanno preferito il paracadute del proporzionale favorendo la destra

 

Alla fine il numero che fa più impressione, dei tanti che scolpiscono la disfatta del Pd, è quello dei senatori eletti dal centrodestra: 112. Appena 12 in più della soglia di maggioranza. Una cifra che va messa in combinato con il numero di dirigenti e ministri dem che hanno scelto di correre in un collegio uninominale, cioè in quelle arene con un unico vincitore dove il centrodestra unito ha fatto incetta di parlamentari: zero. Una grande fuga, una diserzione, si potrebbe dire, se i tempi non sconsigliassero metafore belliche. Non si può nemmeno definirla paura di perdere il seggio, perché i big avrebbero tutti beneficiato di un posto sicuro nei listini del proporzionale, come sempre è accaduto in passato.

Ma nessuno ha voluto ripetere l’esperienza del 2018, quando i ministri del governo Gentiloni furono tutti bocciati dagli elettori. Persero Dario Franceschini a Ferrara, Marco Minniti a Pesaro, Valeria Fedeli a Pisa, Roberta Pinotti a Genova. Una strage che non impedì la loro elezione. Stavolta no, tutti da subito al sicuro nei listini bloccati. Non sarebbe certo cambiato il risultato nazionale, se avessero corso in un collegio, e probabilmente alcuni lo avrebbero perso ancora, ma rinunciare in partenza è stato il primo segno di resa alla destra. Il caso più eclatante è il seggio senatoriale di Roma centro, uno degli ultimi feudi rimasti ai dem, ceduto in franchising a Emma Bonino, sconfitta dalla non irresistibile Lavinia Mennuni, mentre il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti correva capolista per la Camera al proporzionale.

Nonostante la dura sconfitta, nel gruppo dirigente del Pd – il deep Pd, quel circolo che da anni gestisce il traffico del potere interno ed esterno e sopravvive ai segretari come i boiardi ai ministri – non scorrono i veleni seguiti ad altri rovesci elettorali. Per qualcuno, gli ottimisti, è la prova che il partito ha imparato dagli errori del passato. Per altri, i pessimisti, è il segno di quanto è tramortito: non ha più la forza nemmeno di dilaniarsi. Può essere che rimedi al congresso. Intanto, e non è buon indizio, c’è già un congresso sul congresso, cioè sui tempi del congresso, sulle finalità del congresso, persino sul nome da dare al congresso, per Andrea Orlando infatti serve una costituente, e infine sul nome della Cosa che uscirà dal congresso, per il deputato romano Roberto Morassut, uno dei pochi ad aver vinto un collegio, il partito non si può più presentare agli elettori con il marchio Pd. Come Mark Zuckerberg che ha cambiato brand a Facebook, è già caccia al Meta-Pd.

Orlando non è l’unico a chiedere di spostare in avanti le assise. Anche per Dario Franceschini, da sempre uno dei dirigenti più influenti, serve tempo. “Una gestione ordinata e non precipitosa”, è quello che il ministro della Cultura ha chiesto a Enrico Letta quando lo ha pregato, non da solo, di differire le dimissioni da segretario. Pure Francesco Boccia, storico ufficiale di collegamento con il M5S, chiede di spostare tutto più in là, “sennò ci riduciamo a fare il palio di Siena”. La situazione è diversissima, ma Letta si trova un po’ come Zingaretti dopo il Papeete. L’allora segretario del Pd aveva deciso di cogliere l’occasione per andare a votare. Cominciò una processione di visite al suo ufficio al Nazareno e una sfilza di telefonate di tutti i maggiorenti: aspettiamo, vediamo, parliamo con Di Maio.

In tre giorni Zingaretti si voltò e vide che alle sue spalle, sulla strada del voto anticipato, non era rimasto nessuno. Cambiò linea e nacque lì l’idea che il nuovo centrosinistra dovesse essere Pd più M5S. Ciò che è reale è razionale, diceva la destra hegeliana un paio di secoli prima di Goffredo Bettini. Se non puoi batterli, unisciti a loro, diceva Giulio Cesare duemila anni prima di Franceschini. Il deep Pd aveva capito che c’era da tornare al governo anche senza aver vinto le elezioni, come nel 2011 con Mario Monti, come nel 2019 con Giuseppe Conte e, in un altro senso, come con Matteo Renzi nel 2014 che governò tre anni con i voti di Pier Luigi Bersani, segretario che aveva combattuto e disarcionato, sommati a quelli di Alfano e Verdini.

Non è malizioso pensare che qualcuno tra i dem speri possa accadere ancora, se il governo Meloni dovesse andare a sbattere prima del previsto. “Il vero banco di prova per il nuovo segretario Pd sarà il giorno che Meloni dovesse cadere, lì si capirà se abbiamo imparato la lezione o no”, dice il deputato piemontese Enrico Borghi. “Non possiamo più essere la protezione civile della politica italiana”, dice Letta. Ma se il Pd smette di essere la protezione civile, cos’è? Nessuno lo sa. Un partito socialdemocratico? Una forza liberal-centrista? Le alleanze, poi: se prevalesse la linea dell’alleanza con Conte, secederebbe l’ala destra. Se vincesse la spinta verso Calenda, se ne andrebbero quegli altri. “Fare un congresso per decidere se è meglio Conte o meglio Calenda ci porterebbe dritti all’estinzione”, dice l’ex presidente del partito Matteo Orfini.

La successora di Orfini, Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, non è nemmeno entrata in Parlamento. Pochi hanno potuto apprezzare il suo contributo in questi anni, ma forse la carica che tuttora ricopre avrebbe dovuto suggerire una candidatura più blindata, come quella garantita ai big preservati dai collegi. In teoria, se Letta rendesse operative le dimissioni in assemblea nazionale, secondo statuto toccherebbe a lei, da extraparlamentare, fare la reggente del Pd fino all’elezione del nuovo leader. Per questo, forse, Letta convocherà il congresso senza dimettersi.

Un altro mantra di queste ore tra i dem: prima le idee, poi le persone. Come se si potesse discutere una linea senza sapere chi la incarnerà, e con quale credibilità. Neanche si trattasse di scegliere un portavoce per un mandato deciso in sua assenza. Che poi le idee non abbondano, ma pure le persone: non solo non c’è quasi più nessun dirigente da mandare nei collegi con la ragionevole speranza che gli elettori non lo rigettino, ma scarseggiano i dirigenti spendibili nelle cariche interne. Paradossale, per chi fa da anni da riserva della Repubblica e ufficio di reclutamento per i governi di larghe intese. Mancano i giovani. Il ricambio vero non c’è. Anche per questo ai più anziani serve tempo. Magari il tempo di cambiare tutto perché tutto resti com’è.

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