Provenzano: “Il Pd è nato vecchio e governista, va cambiato non buttato”

Annalisa Cuzzocrea La Stampa 5 ottobre 2022
Giuseppe Provenzano: “Il Pd deve guarire dal governismo e costruire una vera alternativa”
ll vicesegretario del Pd: «Non mi candido, peggio della sconfitta è stata la reazione»


Peppe Provenzano non si candida alla segreteria del Pd. E non è che voglia arrendersi, il numero due di Enrico Letta. Non vuole suonare la campana a morto della comunità che rappresenta, ma pensa che la discussione sulla sconfitta elettorale e soprattutto su quel che c’è da fare adesso «sia molto di più di una gara o una gazebata». E che il futuro del Pd dipenda dalla capacità di costruire «un’opposizione in grado di creare un’alternativa».

La richiesta al Pd di abbandonare nome e simbolo per andare verso qualcosa di nuovo arriva da più parti, perfino da una sua ex presidente come Rosy Bindi. Lei come risponde?

«A me sembra che rischiamo di alimentare ulteriore confusione. Di fronte al governo più a destra della storia della Repubblica, non credo che sciogliere il primo partito di opposizione possa servire. Dobbiamo invece discutere a fondo. Anzi, forse dovremmo farlo per la prima volta e non da soli».

Ammetterà che il Pd doveva essere un argine ben più forte all’avanzata della destra, ma che quell’argine non ha tenuto.
«Siamo stati sconfitti, ma non siamo vinti. Non c’è stata un’onda nera, la destra ha preso i suoi voti, ma attenzione, l’onda potrebbe arrivare adesso se lasciamo sguarnito il fronte dell’opposizione. Mi preoccupa che la discussione tra di noi diventi autoreferenziale e astratta se elude questo fatto nuovo, che ha rilevanza europea e mondiale».
Quindi cosa bisognerebbe fare adesso, subito?
«Costruire un nuovo partito democratico. Affrontare finalmente il nodo della sua identità, sapendo che questo dipenderà dalla capacità di legare l’opposizione in Parlamento al bisogno di alternativa che crescerà nel Paese».

E da dove si parte?
«Dalle fondamenta e non dal nome. In questo senso l’opposizione può essere perfino un’opportunità. Si dice spesso che siamo nati tardi, la verità è che siamo nati vecchi. Siamo nati al governo, mentre esplodeva una questione sociale che ha minato le nostre democrazie dall’interno. Le nostre risposte sono state a lungo deboli. Il problema non è stato solo Renzi, la lotta alle disuguaglianze non era nel certificato di nascita del Pd».

Molto governismo, poche battaglie?

«Il governo senza consenso è stato il suo errore di fondo. Ogni volta c’è stata una ragione, una giustificazione, però alla lunga questo toglie credibilità. Se non hai un’identità riconoscibile è il governo stesso la tua identità. Non possiamo dire, come Jessica Rabbit, che ci disegnano così. Perché noi siamo così, a tutti i livelli, dal nazionale al locale. Svolgiamo una funzione di governo, ma non una funzione politica. Quella per cui le persone o i gruppi sociali ti affidano le loro istanze e sanno che le porti avanti».

Come si recupera quella funzione?
«Se siamo capaci di rispondere alla domanda di fondo: perché la povera gente non ci vota e come riconquistare il suo consenso senza cedere quello che già abbiamo e che non dobbiamo dare per scontato. Non puoi eludere a lungo il tema dell’identità, tanto più quando gli elettori, sia adesso che nel 2018, ma già nel 2013, votano un simbolo, come se ci fosse il proporzionale. Scelgono chi li rappresenta in quel momento».

Scegliere un’identità significa lasciare andare via un pezzo? Scindersi ancora?
«Solo sciogliere le contraddizioni. In 11 anni di governo, su 15 di vita, abbiamo detto tutto e il contrario di tutto. Un grande partito dev’essere plurale, ma su alcuni punti fondamentali non puoi avere due linee. Perché se un segretario, forse tardivamente, dice in campagna elettorale che il Jobs Act va superato e un aspirante segretario dice che invece no, allora un operaio che cosa deve pensare? Io ci sono andato alla Fiom a Torino, è esattamente questo che mi rimproveravano».

Le due anime originarie, quella di centro e quella di sinistra, non possono andare più insieme?
«Non faccio una discussione ideologica, sono un socialista, ma anche nel socialismo europeo bisogna fare chiarezza visto che ci convivono gli spagnoli e i falchi del rigore nordici. Basta guardare alla vita delle persone. L’altro giorno a Firenze un ragazzo di 26 anni è morto per consegnare una cena. Il giorno dopo l’azienda per cui lavorava gli ha mandato una mail di licenziamento per non essersi loggato sulla piattaforma in tempo. Un errore, si sono scusati. Se di fronte a un’ingiustizia del genere non si capisce immediatamente che è il Pd il partito che ti difende, allora non serviamo a niente».

Il segretario ha annunciato un congresso, sono scattate le prime candidature, si riparte dai nomi e dalle alleanze. C’è qualcosa che non funziona in tutto questo?
«Peggio della sconfitta, è stata la reazione alla sconfitta. Serviva una certa solennità, e invece è partita una ridicola ridda di nomi. Ho visto persino alcuni candidarsi dicendo che non gli piacciono le autocandidature – quelle degli altri, evidentemente».

Traduco: Stefano Bonaccini. Lei è considerato uno dei possibili rivali. Si candiderà?
«Vorrei dare un modesto contributo, prima della discussione politica vera che faremo domani in Direzione. Io non mi candido. È un nome in meno. Voglio confrontarmi sulla politica. Vincenzo Cuoco diceva: invece che dei princìpi si discuteva dei prìncipi. Dovremmo fare il contrario».

Il percorso congressuale appare lento, non all’altezza delle urgenze del Paese.
«Partiamo subito. Chiamiamo a raccolta singoli, associazioni, sindacati, allarghiamo la nostra discussione e chiariamoci sulle scelte di fondo. Dall’esito di questa prima fase dipende la capacità della seconda di non essere l’eterno ritorno dell’uguale. Dobbiamo dimostrare di non essere irriformabili. E a differenza di Enrico penso che dobbiamo discutere anche delle nostre regole, perché non puoi dire “facciamo un partito nuovo” con lo stesso meccanismo malato che consuma i leader e ci riporta sempre al punto di partenza. Un po’ più soli».

Qual è la proposta?
«La partecipazione non la realizzi con una giornata ai gazebo, alle persone non devi chiedere due euro per un leader, ma cosa pensano, come vorrebbero cambiare le cose».

Basta primarie?
«È un rito chiedere alle persone di venire, se non andiamo prima noi. Dobbiamo uscire dal recinto, discutere con quel mondo privo di rappresentanza o che subisce ingiustizie o che esprime bisogni di cambiamento, che innova sul piano sociale e ambientale, che non guarda più a noi o non ci ha mai guardato. Riconquistare fiducia».

E le alleanze?
«Se non sai chi sei, tutto si riduce al con chi vai. Torniamo sempre lì. Noi abbiamo il dovere di riprendere il dialogo, e quando si insedierà il nuovo governo sarà più chiara la responsabilità di chi pensa solo a se stesso, a dividere. Ma questo viene dopo».

Crede sia possibile per il Pd allearsi con chi ha lanciato un’opa sulla sua comunità, come Conte?
«C’è una tradizione, un’ispirazione, quella della sinistra italiana, da salvare. Anzi bisogna farla vivere anche in un tempo nuovo, penso al Brasile di Lula, alla rivolta degli studenti in Iran, alla minaccia nucleare di Putin. Non possiamo regalare questo patrimonio a Conte e alle sue ambiguità. Lui si dichiara progressista, ma mai di sinistra e infatti mostra indifferenza rispetto al fatto che abbiamo il governo più a destra di sempre».

E con Calenda che vi ha chiesto di scegliere, lui e Renzi o i 5 stelle, cosa bisogna fare?
«Dire chiaramente che non prendiamo ordini da Calenda e Renzi che già offrono collaborazione a Meloni. Abbiamo perso le elezioni, non la dignità. Dobbiamo scegliere di investire sulla costruzione di un nuovo Pd per una nuova sinistra».

Cosa pensa del nuovo volto prudente di Giorgia Meloni. Rappresenta una destra pericolosa o più realista?
«Per quanto possa mascherarsi, chiamare ministri tecnici, chiedere a Draghi di scortarla in Europa, credo che con le sue relazioni internazionali e le sue contraddizioni interne rischi di farci arretrare su tutti i campi, dai diritti alla giustizia sociale alla tutela dell’ambiente. È per questo che non dovremmo dichiarare la resa, ma mettere a disposizione il nostro percorso costituente della costruzione di un’alternativa».

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