Franco: «Serve cautela sui conti. Giorgetti al mio posto? Sarebbe adattissimo»

Federico Fubini Corriere della Sera 21 ottobre 2022
 
Franco: «Serve cautela sui conti. Giorgetti al mio posto? Sarebbe adattissimo»
Ministro, che bilancio fa di questi venti mesi di governo?

 

«Abbiamo chiuso l’anno scorso con una crescita del 6,7%, superiore a quella che noi stessi ci aspettavamo – risponde il ministro dell’Economia uscente Daniele Franco –. Il primo semestre del 2022 si è chiuso con una crescita acquisita del 3,6%. Abbiamo ridotto l’incidenza del debito sul Pil dal 154,9% del 2020 al 150,3% del 2021 e ci aspettiamo che scenda ulteriormente al 145,4% alla fine di quest’anno: un calo di quasi 10 punti in due anni. Va ricordato che siamo nati come governo in un contesto di emergenza e di grandi aspettative. Per sostenere un’economia in recessione a causa del Covid abbiamo effettuato interventi per 70 miliardi nell’arco di pochi mesi. In parallelo avevamo due mesi e mezzo per completare il Piano nazionale entro il 30 aprile; siamo riusciti a farlo ed è stato valutato positivamente dalla Commissione europea. Credo che un test sull’efficacia degli interventi adottati in pandemia sia rappresentato dai settori che sono stati chiusi per i lockdown e per la caduta dei flussi internazionali, per esempio il turismo. Quest’anno sono tornati a essere pienamente operativi. Evidentemente quegli interventi molto capillari hanno aiutato a preservare il tessuto delle imprese».

 

Poi è subentrata l’emergenza energia…

«I primi provvedimenti sono del secondo trimestre 2021. Gli interventi sono stati via via rafforzati perché i prezzi dell’energia sono aumentati fino a dodici volte, livelli mai visti prima. I nostri interventi supereranno alla fine di quest’anno i 60 miliardi. Lo Stato non può farsi carico del 100% dell’aumento dei costi: la situazione di molte famiglie e imprese resta pertanto difficile. Però siamo riusciti a contenere l’impatto dell’aumento dei prezzi, soprattutto sulle famiglie più disagiate. Nel frattempo abbiamo riempito il 94% degli stoccaggi, stanziando 4 miliardi di fondi pubblici per comprare gas».

 

Si direbbe che la vostra stagione di governo sia stata tutta un passare da un’emergenza all’altra.

«È così, ma senza perdere mai di vista il fatto che il problema principale del nostro Paese è strutturale. Cresciamo poco da un quarto di secolo, meno del resto dell’area euro. Prendiamo in considerazione il Pil pro-capite da metà degli anni ‘90 al 2019: l’area euro, senza l’Italia, è cresciuta come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Il punto fondamentale per noi, quindi, è uscire da questa lunghissima stagnazione. Puntiamo su questo obiettivo, anche grazie ai 191,5 miliardi del Pnrr a cui abbiamo associato un fondo complementare da 30,6 miliardi. Ma le risorse del Piano e il suo orizzonte temporale, per quanto fondamentali, da soli non sono sufficienti. Per questo motivo nella scorsa legge di bilancio abbiamo stanziato altri 94 miliardi per investimenti, tanto che al momento abbiamo oltre 600 miliardi di risorse pubbliche per investimenti, tra fondi nazionali ed europei, da qui ai prossimi 15 anni. È una cifra senza precedenti».

 

Una delle critiche è che avete dimezzato gli incentivi alle imprese nati come Industria 4.0.

«È una critica infondata. Per il 2022 gli incentivi erano già finanziati. Potevamo rimandare il finanziamento degli anni successivi alla legge di bilancio per il 2023, invece abbiamo cominciato ad affrontarlo, prorogando gli incentivi al triennio 2023-25 con un’aliquota più bassa, a causa dei vincoli di bilancio che avevamo. La nuova legge di bilancio potrà partire dalla base che abbiamo creato per rafforzarli. È una misura importante per consolidare la ripresa degli investimenti. Dobbiamo proseguire con una strategia che affronti i problemi della crescita del Paese da varie angolature, ad esempio anche continuando a puntare sulla ricerca. A questo proposito, ricordo anche i due fondi che abbiamo creato – ciascuno da 250 milioni annui su base permanente: uno per la ricerca di base e uno per quella applicata. In Italia per crescere di più abbiamo bisogno di aumentare gli investimenti privati e pubblici e alzare il tasso di occupazione, di dieci punti più basso che nel resto dell’area euro. A questo scopo, sarebbe bene continuare a ridurre il cuneo fiscale. Bisogna poi accrescere la produttività, che dipende anche dal contesto ambientale, un tema centrale nelle riforme del Pnrr. Cercare di alzare il tasso di crescita di medio termine dell’economia italiana dovrebbe restare il nostro obiettivo principale».

 

A consuntivo nei due anni di sua gestione sono sempre emersi dei margini in più rispetto al previsto. Aveva annunciato deficit più alti per tenere a bada gli appetiti?

«No. Abbiamo avuto, come già detto, un andamento dell’economia nettamente migliore delle attese. In parte anche per le risorse impiegate che hanno favorito la ripresa e stimolato il gettito fiscale. Poi, certo, abbiamo sempre scelto la prudenza, per non annunciare obiettivi difficilmente raggiungibili. La politica economica è più efficace se è credibile».

 

In che settori l’economia si è dimostrata più robusta delle attese?

«L’export è andato molto bene, è aumentato nel secondo trimestre di quest’anno di oltre il 12% sullo stesso periodo dell’anno precedente. C’è un dinamismo molto accentuato delle imprese che il governo ha cercato di assecondare e sostenere. L’altro elemento è quello degli investimenti, che sono aumentati in tutte le componenti pubbliche e private. Nel 2021 sono cresciuti del 16,5%, nel secondo trimestre del 2022 la crescita è stata superiore all’11%. Gli investimenti in Italia erano scesi al 17% del Pil nel 2016 e ora sono risaliti al 21%, vicini alla media del 22% nell’area euro. Questo ci fa sperare che sia possibile uscire dalla nostra lunga stagnazione: abbiamo migliaia di aziende che si muovono con notevole vitalità».

 

L’hanno per caso sondata per capire se lei aveva voglia di restare ministro?

«No, non ho avuto alcuna richiesta di restare».

 

Sembra dunque che il suo successore sarà Giancarlo Giorgetti. Cosa ne pensa?

«Lo conosco da parecchi anni e credo sarebbe adattissimo per questo ruolo. È stato presidente della commissione Bilancio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico. Con lui abbiamo lavorato fianco a fianco in questi venti mesi di governo. Abbiamo in comune l’idea che lo sviluppo economico italiano dipenda da quanto accade nel sistema produttivo, in primo luogo nella manifattura e nei servizi, che questi settori siano il cuore della nostra capacità di creare reddito e che quindi debbano essere al centro dell’attenzione della politica economica. Farà certamente bene».

 

L’inflazione nel 2022 ha aumentato il gettito, ma dall’anno prossimo farà salire la spesa per pensioni, cedole dei titoli di Stato, stipendi pubblici. Peserà sui saldi?

«Nella Nota di aggiornamento al Def teniamo già conto dell’indicizzazione delle pensioni, la cui spesa aumenterà di 23 miliardi di euro, e teniamo conto dell’aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico. Nonostante ciò il deficit tendenziale per il 2023 è di mezzo punto di Pil inferiore agli obiettivi indicati nel Documento di economia e finanza. Il costo medio del debito resta basso in prospettiva storica: l’anno scorso il tasso medio all’emissione è stato lo 0,1%, quest’anno sarà l’1,3%. Ovviamente il rendimento dei titoli decennali è salito molto, anche se resta inferiore al tasso di crescita nominale del Pil. L’incidenza della spesa per interessi sul Pil resterà attorno al 4%. Certo, l’inflazione incide sul bilancio pubblico da entrambi i lati, prima aumentando le entrate e poi le spese, ma gli effetti tendono ad annullarsi».

 

Ministro, i rendimenti sui titoli di Stato a dieci anni si sono avvicinati al 5% e potrebbero salire ancora con gli aumenti dei tassi della Banca centrale europea. Intanto a Londra un tentativo di espansione in deficit si è chiuso con le dimissioni del governo. Significa che è meglio evitare scostamenti di bilancio?

«Una prima lezione che possiamo trarre da quanto sta succedendo nel Regno Unito è che bisogna essere sempre prudenti, anche riguardo alle aspettative che si creano. Un’altra lezione è che sono importanti i motivi che inducono a modificare gli obiettivi programmatici di disavanzo. Se lo si fa per accrescere gli investimenti e la ricerca è più probabile che la reazione dei mercati non sia negativa. Quindi occorrono molta cautela e un approccio pragmatico. È chiaro che tassi più alti di per sé orientano verso soluzioni prudenti, ma – di nuovo – l’elemento cruciale è come si usano le risorse».

 

Ma è vero che l’esecuzione del Pnrr è in ritardo?

«Non è così. Tutti gli obiettivi e i traguardi sono stati rispettati, quindi il processo sta andando avanti nei tempi previsti. Per il semestre in corso sono stati già raggiunti 25 obiettivi dei 55 previsti e altri ne arriveranno a breve».

 

Ma nel centrodestra si parla della necessità di una revisione anche a causa dell’aumento dei costi delle opere.

 

«Al problema dell’inflazione dei costi dei materiali abbiamo già risposto con stanziamenti aggiuntivi per circa 7 miliardi. È una misura che potrebbe essere ripetuta reperendo ulteriori fondi nazionali. In alternativa, ma non è la strada che abbiamo scelto, si potrebbe anche decidere che all’aumento dei costi si risponda con una riduzione dei progetti».

 

Dunque il Piano di può rivedere, come dice Giorgia Meloni?

«Il Piano non è scritto sulla pietra. È un soggetto vivente che va adattato: ogni linea di intervento esige manutenzione. Qualche adattamento è già stato fatto e credo che questo processo continuerà. Ma ciò non vuol dire riscrivere tutto dalle fondamenta; vuol dire affrontare caso per caso le criticità: per esempio le complessità amministrative e gli effetti dell’inflazione».

 

Una critica che vi si muove è di non aver messo abbastanza politica industriale nel Piano…

«Ma ci sono altre risorse, nazionali, che possono essere mobilitate per questo. Ricordo, ad esempio, i fondi che abbiamo stanziato quest’anno fino al 2030 per il settore dell’automotive e per il comparto dei microprocessori».

 

Anche nella parte delle riforme il Piano è rivedibile?

«Non credo che sugli obiettivi delle riforme vi sia disaccordo; le linee principali sono la semplificazione amministrativa, il buon funzionamento della pubblica amministrazione, la riduzione dei tempi della giustizia, la concorrenza. Su questo pacchetto tutti i partiti hanno votato a favore in Parlamento, con l’astensione del partito di opposizione».

 

Ministro, quanto è stato speso per il superbonus? Come si fa a correggere le distorsioni?

«Secondo gli ultimi dati Enea, a settembre 2022 gli investimenti per lavori terminati valgono circa 35 miliardi e i crediti ammessi a detrazione qualcosa più di 50 miliardi. L’aspetto positivo è che adesso tanti edifici sono più sicuri e più efficienti dal punto di vista energetico e che il settore delle costruzioni è stato fortemente sostenuto. Ma gli immobili interessati sono relativamente pochi e incentivi così elevati hanno prodotto distorsioni nei prezzi. Poi c’è una questione di equità: per esempio in Italia le abitazioni di tipo popolare sono il 15% del patrimonio, ma hanno avuto solo il 5% della quota di interventi; le villette sono il 7% ma hanno avuto il 20% dell’ammontare complessivo».

 

Lei ha detto che la cessione dei bonus energetici ha generato le più grandi truffe nella storia della Repubblica…

«I crediti d’imposta inesistenti sequestrati valgono circa sette miliardi; erano stati creati solo per essere trasferiti a terzi. Solo una parte è stata tuttavia incassata. Per recuperare questi fondi abbiamo costituito una task force coordinata dalla Guardia di Finanza, che dà supporto sistematico all’attività della magistratura».

 

Come se ne esce?

«Gli interventi effettuati dallo scorso novembre sulla cedibilità hanno arrestato le truffe. Occorre continuare nel processo che riconduce le aliquote di spesa di cui si fa carico lo Stato a livelli non distorsivi e più equi».

 

Ministro, il Fondo monetario internazionale ha previsioni di crescita sull’Italia più negative delle vostre per il 2023: meno 0,2%, mentre il governo prevede più 0,6%. Perché secondo lei?

«L’Fmi è pessimista sull’evoluzione dell’economia mondiale nell’immediato e vede un rallentamento molto accentuato in Germania, l’altro principale Paese manifatturiero, legato al costo dell’energia. Rilevo tuttavia che negli ultimi due anni le nostre previsioni sono sempre state più positive di quelle degli organismi internazionali e che ciò nonostante i risultati hanno superato le nostre stesse stime. Sappiamo che anche il terzo trimestre di quest’anno non sta andando male – malgrado i costi dell’energia; ad esempio i dati della produzione industriale in agosto sono stati molto positivi. A conferma della vitalità dell’economia italiana e delle sue imprese di cui dicevo. Poi c’è il Pnrr, che l’anno prossimo dispiegherà maggiormente i suoi effetti con una spesa complessiva di oltre 40 miliardi. Anche questo aiuterà la crescita».

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