De Luca, il bullo delle istituzioni

Isaia Sales La Repubblica 30 ottobre 2022
De Luca, il bullo delle istituzioni
Per ben tre volte nell’ultima campagna elettorale Enrico Letta è salito su di un palco assieme a Vincenzo De Luca. Lo ha fatto a Taranto, a Napoli e nella manifestazione di chiusura a Roma. Questo privilegio è stato concesso a pochi altri.

 

Nel comizio tenuto a Napoli il segretario nazionale del Pd ha parlato del presidente della regione Campania come di “un governatore che ha combattuto in questi anni con lungimiranza, coraggio e impegno”. E a Taranto, dove il Pd ha presentato il suo Manifesto per il Mezzogiorno, ha indicato De Luca e Michele Emiliano (presidente della regione Puglia) come due modelli positivi di governo per il Sud e per l’Italia.

Ma nonostante una casermesca gestione del potere da parte dei due dioscuri della politica meridionalistica, sono proprio le due regioni del Sud a guida Pd che hanno registrato il maggior insuccesso del partito di Letta. Il Pd in Campania ha preso il 15, 64% dei voti, in Puglia il 16,83%, rispetto al 19,07% registrato a livello nazionale. In tutte le regioni meridionali il Pd si è classificato al terzo posto, surclassato da Fratelli d’Italia e dagli odiati 5Stelle, che si confermano come il primo partito del Sud. Un campano su tre ha votato per i 5Stelle, e De Luca è alla guida della regione già da sette anni e mezzo. In Abruzzo e nel Molise il Pd ha avuto più voti che in Campania, pur non governandole. Oggi è il Sud il territorio di massima difficoltà elettorale per il Pd, quello più ostico e più ostile, il suo vero tallone d’Achille.

Nei giorni scorsi Piero De Luca, figlio di Vincenzo, è stato confermato vicepresidente del gruppo Pd alla Camera dei deputati. De Luca padre è arrivato addirittura a paragonare l’ascesa politica della sua famiglia a quella del presidente della repubblica Mattarella, che ha avuto un padre ministro e un fratello (ammazzato dalla mafia) presidente di regione. Non si è vergognato di questo paragone, e nessuno del Pd lo ha richiamato a un elementare senso della misura.

Quindi, la famiglia De Luca va considerata azionista di maggioranza del Pd, gode di alta considerazione da parte del segretario e del gruppo dirigente nazionale. I presidenti della Campania e della Puglia sono per il Pd il meglio che il meridione esprime e propone per l’Italia. Hanno legittimato delle satrapie e le chiamano “buon governo” del Sud!

In tanti, da tempo, dentro e fuori il Pd, si chiedono come mai un partito di sinistra o progressista possa aver portato ai vertici delle istituzioni De Luca e figli, e non trovano finora risposte convincenti. Letta è l’ultimo segretario del Pd a considerarlo un elemento prezioso del partito. Prima di lui Renzi, Zingaretti, Bersani, Franceschini e Veltroni hanno speso parole elogiative, in verità mai ricambiate. De Luca, infatti, è il dirigente del Pd che più disprezza il Pd e i suoi dirigenti. In un dibattito ha paragonato gli iscritti al Pd agli ebrei durante le leggi razziali: “Braccati, umiliati e senza patria” suscitando la reazione della comunità ebraica di Napoli. E ancora: “Perché votare il Pd? È un partito di anime morte. Autentiche nullità, imbecilli che vengono a rompere le scatole a noi che lavoriamo”. E nel comizio di chiusura a Roma ha ridicolizzato Enrico Letta: “Non mi sento di dire che abbiamo un segretario nazionale scoppiettante, ma offriamo una classe dirigente locale di grande competenza e onestà”. Tradotto: meglio noi presidenti di regione che Letta e i suoi.

Quando poi deve attaccare avversari dichiarati non si pone nessun freno: “Imbecilli, animali, parassiti, cafoni, pinguini, bestie, trogloditi, miserabili, saltimbanchi, iettatori, sciacalli, analfabeti, idioti, cialtroni, farabutti, imbroglioni, cocco belli, pulcinella, mezze pippe”. Queste le parole meno volgari. Apostrofò come “chiattona” una sua ex oppositrice in consiglio regionale. A Rosy Bindi ha riservato queste parole “è una infame, da ucciderla”; ai 5Stelle queste altre: “che vi possano ammazzare tutti quanti”; a proposito di Marco Travaglio si è augurato “di incontrare quel grandissimo sfessato di giornalista di notte, al buio”; nei confronti di Luigi De Magistris ha consigliato ai disoccupati napoletani di comportarsi così: “a quello lo dovete sequestrare, sputategli in faccia”. Ha poi definito Giorgia Meloni “burina e sora Ceciona”; e i presidenti del Senato e della Camera come nessun avversario politico potrebbe mai fare. De Luca è un offensore seriale, l’uomo politico più scurrile della seconda repubblica. È il bullo del Pd, il bullo delle istituzioni.

Com’è possibile che, invece, venga presentato da Enrico Letta come il più autorevole rappresentante del meridionalismo progressista?

Qualcuno penserà che sia solo questione di voti. Il Pd tollera De Luca perché in ogni elezione apporta un contributo notevole di consensi. E i voti non si rifiutano. Ma le cose non stanno così: De Luca vince solo quando lui è candidato, e il Pd non ne riceve nessun apporto concreto in voti alle politiche. Lui è un uomo di potere non di partito, è un uomo di tessere non di voti.

Il nostro eroe è stato favorito da una situazione del tutto particolare: la trasformazione definitiva con Renzi dell’ex partito comunista in un’organizzazione dove è fondamentale il controllo delle tessere e dei voti alle primarie. E chi si poteva permettere a Roma di contestare i metodi di De Luca se nel frattempo essi erano (e sono) diventati i metodi del Pd?

In questo modo De Luca ha consolidato in Campania un nuovo modello di rapporti tra il livello di decisione nazionale e quello locale: non più e non tanto il “partito personale” ma il “partito a mezzadria”, con una cessione di podestà del potere centrale a forme di padrinato locale. Un ritorno alle modalità di fine Ottocento basate sul notabilato, sul familismo, sul trasformismo. Era questa la triade che ispirava il funzionamento della politica di allora in assenza di forti idealità e di una organizzazione in grado di sottomettere le aspirazioni personali e familiari a interessi collettivi. E proprio dall’esigenza di superare il padrinato politico nacquero prima il partito socialista, il partito cattolico e poi quello comunista. De Luca è l’esempio più clamoroso del ritorno, dopo la fine dei partiti, del padrinato locale come mezzo di ascesa politica e di condizionamento della vita istituzionale. Nel Sud più che altrove.

Infine, non è da sottovalutare l’ingresso prepotente nella cultura politica contemporanea (compresa la sinistra) di temi che hanno a che fare con la paura: la sicurezza, gli immigrati, le epidemie. De Luca ha investito su questi temi. Nella sua gestione della pandemia in Campania si possono studiare gli effetti che la paura può provocare nella formazione del consenso se c’è un cinico investimento sui lati oscuri dell’animo umano e una capacità teatrale di aizzarli. In genere sono gli uomini del centrodestra i politici della paura e quelli del centrosinistra quelli della speranza. De Luca ha cambiato questa tradizione, diventando un arcigno manager delle paure, un leader populista in un partito che si è dichiarato sempre contro il populismo!

Consiglio perciò a Enrico Letta di leggere L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan di Fabio Armao, in cui si teorizza che la consanguineità, il localismo e le paure sono i nuovi parametri di promozione della politica nell’epoca della fine dei partiti. I clan, infatti, ritengono del tutto legittimo proteggere i propri membri, e se necessario garantire loro forme di immunità che li pongono in una posizione di privilegio rispetto a un normale cittadino. Come possiamo chiedere all’Italia di occuparsi del Sud quando alla guida della sua regione più popolata si continua ad accettare che sia un clan familiare, territoriale e correntizio a gestirla?

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