Le rassicurazioni sono svanite, un avvio divisivo e una inquietante sindrome “diciannovista”

Massimo Giannini La Stampa 30 Ottobre 2022
La sindrome “diciannovista” e l’opposizione inesistente
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni vuole “unire l’Italia”. Ma nella “nazione” (ormai unica formula riconosciuta dallo Zeitgeist) si respira un’aria diversa. Per quanto potente, il manifesto che la premier ha illustrato alle Camere è stato divisivo. È in azione Meloni e il suo doppio.


Il febbrile tentativo di rassicurare (l’America e l’Europa, i mercati e gli alleati, l’establishment e il forgotten man) viaggia in parallelo alla sottile tentazione di strappare (la Francia e la Russia, il presidenzialismo e l’antifascismo, il Covid e il contante). E se la destra-destra uscita dal binario 21 ha infine trovato la sua “capatrena” in questa underdog determinata a “stravolgere i pronostici”, forte della sua minorità culturale che si è fatta maggioranza politica, non è ancora chiaro cosa in lei abbia trovato il Paese.

La leader di un polo conservatore moderno, convintamente repubblicano e pienamente costituzionale, rispettoso delle istituzioni e delle tradizioni ma senza venature avventuriste e oscurantiste? La federatrice pro-tempore di una risorta Casetta delle Libertà, senza più il titanismo del Cav ma con le solite faccette più o meno nere da soddisfare, le solite sanatorie da decretare, le solite cartelle da rottamare, le solite toghe da infangare? Oppure una Evita Melòn – come avevamo ipotizzato e come ritiene Lucia Annunziata – depositaria della triade Dio-Patria-Famiglia ma rideclinata alla casareccia, tenutaria del social-populismo anti-politico e affidataria del risentimento dei descamisados di ieri e di oggi? Nel dubbio, scrive giustamente Concita De Gregorio, contano i fatti. E i duri fatti dicono più delle formule vuote, del cambiare i nomi per timore di non riuscire a cambiare le cose: il “made in Italy” e il “sovranismo alimentare”, il “merito” e la “natalità”, una paccottiglia nostalgica e autarchica da Fratelli d’Italietta, che non fa paura ma fa un po’ Ventennio

I duri fatti dicono di un governo che perde faccia e postura sul cash, per strizzare l’occhio al piccolo evasore di finta necessità e al grande riciclatore di denaro sporco. Che mena coi manganelli di Scelba un gruppuscolo di manifestanti non violenti alla Sapienza, nonostante la premier solo il giorno prima al Senato avesse espresso simpatia e affetto per i giovani pronti a contestarla. Che blocca le navi delle Ong fuori dai porti, col piglio muscolare e xenofobo del salvinismo da combattimento pre-Papeete. Che congela le multe ai no-vax, condona i no-pass e abolisce il bollettino quotidiano dei contagi, al grido mai più la “dittatura sanitaria”. Un dissennato laissez-faire, che costringe il Presidente della Repubblica al primo cartellino giallo inflitto all’esecutivo al fischio d’inizio di una partita ad alto rischio. Al fondo di queste avventurose “discontinuità” propugnate dalla destra c’è una malintesa idea di “libertà”. Libertà dal fisco oppressore e dallo Stato dottore, libertà dallo studente urlatore e dallo straniero invasore. “Non vogliamo disturbare chi vuole fare”, sottolinea Meloni nelle aule parlamentari. La verità sembra un’altra. Si saldano cambiali politiche con precise constituency elettorali, dal terziario diffuso penalizzato dalla dis-economia al ceto medio devastato dalla pandemia. Le filiere del rancore, piuttosto che le catene del valore. Per questo, al di là delle chiacchiere, l’epifania meloniana non unisce ma divide. Non parla all’intera nazione, come dice di voler fare, ma per ora solo a un pezzo di Paese. Vede il suo cammino disseminato di bombe sociali. Ma invece di spiegarci come vorrà disinnescarle, pare intenzionata a farle esplodere. Come altro si può interpretare un ministro dell’Interno che di fronte alle cariche della polizia contro i manifestanti della Sapienza evoca i “professionisti della sommossa”?

Rischiamo una stagione “diciannovista”, la formula con la quale Pietro Nenni sintetizzò quello che successe l’anno successivo alla Grande Guerra. Nel disorientamento totale e nell’inquietudine generale si accesero focolai di ogni genere: contrapposizioni politiche e contestazioni di piazza, attacchi all’ordine costituito e prove di forza, tra una destra sempre più intollerante e illiberale e una sinistra sempre più esasperata e frammentata. Un disordine collettivo e una crisi democratica irreversibile, che di lì a poco avrebbe portato alla Marcia su Roma – sulla quale per inciso la Sorella d’Italia, nel giorno del centenario, non ha avuto nulla da dire – e poi all’avvento della dittatura fascista.

Ogni parallelismo storico è sempre azzardato. Ma sta prima di tutto al governo e alla maggioranza non avvelenare i pozzi. Non forzare i toni. Non spargere altra benzina sul fuoco delle tensioni sociali e dei conflitti politici. Non far deflagrare quella polveriera di rabbia, disagio, esclusione che, come nel “Diciannovismo”, portò il Paese alla svolta autoritaria. Ora che ha rinfoderato almeno qualche arma-giocattolo della propaganda, a partire dalla futile provocazioncella nominalistica su come si debba chiamare “il” o “la” Presidente del Consiglio, vogliamo credere che “Giorgia” saprà governare attuando il programma sul quale ha vinto le elezioni – e questo è suo pieno diritto – ma evitando inutili spargimenti di furore ideologico da parte sua, dei suoi Fratelli e dei suoi alleati. Ma lo vogliamo credere sul serio, e non per finta. Persuasi che la pace sociale sia un bene per tutti, non illusi che gli scontri di Palazzo e di piazza siano lo sfogo fisiologico per pochi. Parafrasando Luigi Facta, che alla vigilia del crollo della nostra democrazia non capì nulla, o fece finta di non capire: “Nutriamo fiducia”.

E l’opposizione, in tutto questo? Anche all’opposizione è doveroso rivolgere un analogo appello al senso della misura e della responsabilità. Peccato solo che oggi non si sa più neanche cosa sia, l’opposizione. Vogliamo considerare tale la penosa macchina da guerra che raglia e sferraglia nel doppio emiciclo compreso tra Azione-Italia Viva e Verdi-Sinistra Italiana, con in mezzo il Pd e i 5S? Le deboli forze di questo involontario CLN alle vongole, già in campagna elettorale, avevano dato una prova imbarazzante: divisi su tutto, decisi su niente. Dopo la disfatta del 25 settembre sono riusciti a fare anche peggio. Annichiliti dalla Donna Alfa dell’ultradestra ormai dominante, bisbigliano, borbottano, sproloquiano. Direbbe Vasco: ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi. È vero: Meloni in aula li ha spianati di brutto, con un comizio tosto, tutt’altro che banale. Eppure di spunti critici e di punti deboli ce n’erano, per un centrosinistra consapevole di sé e dei suoi mezzi. Ma niente: i sedicenti leader le hanno contrapposto il nulla. C’è stato Matteo Renzi, che con la consueta abilità oratoria ha parlato più da quinto partito della maggioranza che da Terzo Polo dell’opposizione. È il Renzusconi, eterno ritorno dell’inciucio centrista ed “entrista” di rito nazareno? Probabile. Ma almeno un disegno ce l’ha. E poi c’è stato Giuseppe Conte – che nell’eclissi definitiva del Movimento, capace di perdere 7 milioni di voti in quattro anni – ha almeno chiarito cos’ha in testa: farsi un partito suo, spacciarsi davvero per Avvocato del Popolo, riciclarsi come leader progressista e peronista, intestarsi la protezione dei deboli e dei poveri, lanciarsi nell’Opa sull’elettorato in fuga del Pd. È il Camaleconte, evoluzione della specie trasformistica del Bestiario politico? Sicuro. Ma almeno un progetto ce l’ha.

Spiace dirlo, ma in questo mesto scenario di decomposizione è proprio il Partito democratico che non c’è (come hanno ammesso Gianni Cuperlo e Giuseppe Provenzano). Sorprendentemente incapace di inchiodare Meloni sul merito, il freno all’inflazione e al caro bollette, la lotta alla povertà e alla precarietà. Inutilmente impiccato alla solita Agenda Draghi e ai pur bravi ministri che l’hanno custodita, da Speranza a Colao, come se il 25 settembre non ci fosse mai stato. Incredibilmente inadatto a ricomporre la “frattura sentimentale” con la sua gente. Scandalosamente ripiegato sui bizantinismi di un congresso trasformato in una sorta di “Tu si que vales”, dove concorrenti di ogni tipo – per lo più grigi ex ministri col solito cappello da capobastone e mediocri ex ministre sempre ferme ai caselli autostradali – si intruppano nel tentativo di dimostrare chissà quale dote nascosta e incompresa. Non è con questo caravanserraglio che si costruisce l’alternativa al melonismo arrembante (e al conformismo dilagante che lo accompagna). E questo è un dramma per la nostra democrazia. Perché vuol dire che se questa coalizione delle tre destre non regge l’urto delle troppe emergenze che incombono, l’Italia ancora una volta non ha un piano B per voltare pagina. E rimane prigioniera della crisi di sistema che dura ormai da quindici anni. La sola amara cosa che viene in mente è Bertolt Brecht, e il suo “A chi esita”: “Per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano… E il nemico ci sta innanzi più potente che mai…Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? Qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente?… Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta, oltre la tua”.

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