La Turchia di Erdogan vent’anni di equilibrismi per restaurare l’Impero

Lucio Caracciolo La Repubblica 5 novembre 2022
La Turchia di Erdogan vent’anni di equilibrismi per restaurare l’Impero
Un giorno gli storici parleranno di “èra Erdogan” per qualificare gli ultimi vent’anni della Repubblica Turca, segnati dalla preminenza del suo attuale presidente. Chiunque abbia a che fare con lui, quale ne sia il giudizio politico o ideologico, ne percepisce la personalità autocentrata.

Tutti ricordiamo la piccola frase di Mario Draghi, che lo bollò “dittatore”. Ma quel che conta non è tanto la vastità dei poteri di Erdogan, quanto la capacità di offrirsi riferimento sia per le masse islamo-conservatrici dell’Anatolia profonda che per buona parte dell’élite kemalista. Su questo “compromesso storico” poggia l’ambizione turca di ascendere al grado di grande potenza. Così compiendo la parabola più che trentennale che l’ha elevata da sentinella atlantica alla frontiera meridionale dell’Unione Sovietica a potenza autonoma, centrata sui propri interessi nazionali. Più che nazionali, imperiali.
Il ventennio erdoganiano disegna fra mille contraddizioni, incertezze e sconfitte la traiettoria geopolitica della Turchia miracolosamente sopravvissuta alla Prima guerra mondiale verso la riaffermazione della sua storica matrice imperiale Sultanale. Quindi anche califfale. Erdogan si considera protettore dei musulmani ovunque si trovino. La sua radice di Fratello Musulmano non è più rilevante come un tempo – anche perché la Fratellanza pare in crisi terminale – ma incide sulla sua visione del mondo. Non abbastanza da impedirgli di ricostruire almeno in parte il rapporto privilegiato con Israele che la Turchia aveva stabilito nello scorso secolo, senza perciò rinnegare l’appoggio alla causa palestinese, per quel poco che ancora conta nel mondo arabo-islamico.
Se squaderniamo davanti a noi le carte dell’Eurasia e dell’Africa scopriamo quanto pervasivo sia l’imperialismo turco. Dall’Asia centrale al Medio Oriente, dal Nordafrica al Sahel, dai Balcani al Mediterraneo, le tracce pesanti dell’influenza turca sono immediatamente percepibili. Ne sappiamo qualcosa noi italiani. Cent’anni dopo la spedizione dell’Italietta giolittiana in Libia, sottratta agli ottomani, troviamo di nuovo i turchi a Tripoli. Domani forse anche in Cirenaica, loro obiettivo strategico, specie se i russi dovessero spedire in Ucraina i mercenari della Wagner che presidiano l’Est libico.
La strategia di Erdogan e delle Forze armate che lo sostengono è di mutare la potenza anatolica in potenza marittima. “Patria Blu”, marchio inventato da un ammiraglio tutt’altro che simpatizzante per il suo presidente, a conferma del sostegno delle strutture profonde dello Stato all’espansionismo neo-imperiale. Non certo invenzione di Erdogan. È la missione di lungo periodo che accompagna i turchi, la cui idea di sé è nettamente superiore alle risorse di cui dispongono. Mantenersi in equilibrio su questa contraddizione è l’abilità di Erdogan. Almeno finora.
La pulsione imperiale porta Erdogan a muoversi al di fuori dell’interpretazione americana della Nato, talvolta contro, però senza rompere con Washington. Il suo intenso rapporto con Putin, bilanciato dall’aiuto militare agli ucraini, testimonia dell’equilibrismo erdoganiano. Questa Turchia non metterà mai tutte le sue uova in un solo cesto. Sicché dopo essersi installato a Tripoli Erdogan ha incentivato i rapporti economici e commerciali con l’Italia, storicamente uno dei partner europei più apprezzati ad Ankara.
Forse l’anno prossimo, sotto la pressione della guerra, dell’inflazione galoppante, della refrattarietà di quote rilevanti dell’opinione pubblica al suo paternalismo dal pugno duro ma soprattutto di un potere troppo prolungato – Erdogan non riuscirà a rivincere le elezioni. Ma chiunque gli succeda difficilmente devierà dal corso geopolitico dell’ultimo ventennio. Anche perché se ci provasse non potrebbe essere certo di concludere il suo mandato.

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