Le donne d’Iran che combattono nel silenzio dell’Occidente

Massimo Giannini La Stampa 11 dicembre 2022
Le donne d’Iran che combattono nel silenzio dell’Occidente
«Name To Ramz Mishavad», c’è scritto sulla lapide di Mahsa Amini, che riposa al cimitero di Saqqez, nel Kurdistan iraniano. «Il tuo nome diventerà chiave», significa quell’iscrizione. E così sia. Così è.

Da quando il pugno del regime ha schiacciato senza pietà la sua vita, giusto tre mesi fa, Mahsa è diventata davvero la «chiave». Questo pettirosso da combattimento volato via troppo presto non è solo il simbolo di un popolo esausto, che lotta contro le leggi assurde della teocrazia. È anche il volto di una gioventù universale, che combatte in ogni luogo e in ogni tempo per la libertà. Questa ragazza di 22 anni, bastonata a morte il 16 settembre dalla Gasht-e Ershad, la «polizia morale», ha ridato forza e coraggio a un’intera generazione prigioniera di un’altra allegoria: l’hijab, un velo ormai trasformato in camicia di forza dal sinedrio degli ayatollah. «Quante storie per un pezzo di stoffa…», dice uno degli studenti più brillanti ad Azar Nafisi, nel suo meraviglioso «Leggere Lolita a Teheran». Sì, veramente tante storie. Come quella di Nika Shakarami, diciassette anni. Di Sarina Esmailzade, sedici anni. Di Haith Najafi, vent’anni.

Di Fahimeh Karimi, insegnante e madre di tre figli, condannata a morte in attesta di giudizio per aver reagito a un arresto. Di Moshen Shekari, già giustiziato a 23 anni, colpevole di aver bloccato il traffico, e dunque fatalmente del reato di «inimicizia contro Dio».

E delle oltre 30 mila ragazze e ragazzi braccati e arrestati, e dei 500 uccisi nelle strade o nelle carceri dai fucili dei 125 mila Guardiani della Rivoluzione e dai manganelli dei 90 mila paramilitari basiji che ogni giorno, per assicurare la «pace terrificante» della dittatura, reprimono le proteste nel sangue.

L’Iran è ormai una polveriera. La ferocia delle «forze dell’ordine» non si ferma. Secondo Amnesty International almeno altri ventotto giovani rischiano la pena capitale nei prossimi giorni. Hana, giovane curda appena uscita da un centro di detenzione, racconta di 40 ragazze come lei pestate e stuprate sistematicamente dagli aguzzini. Farideh Muradkhani è la nipote dell’Ayatollah, e persino lei è agli arresti per aver sostenuto Mahsa. Non basta la propaganda della Repubblica islamica. La guida suprema Ali Khamenei parla ai cadetti dell’esercito e liquida l’assassinio della Amini come un banale «incidente». Il presidente-fantoccio ultraconservatore Ebrahim Raisi va all’Università femminile di Sharif, recita poesie in cui si paragonano le manifestanti alle mosche e mentre in aula magna dice «sono qui per favorire il dialogo» fuori, per strada, i Sepah in tenuta anti-sommossa bastonano furiosi le studentesse.

Nel centro della capitale le autorità affiggono un gigantesco manifesto intitolato «Donne della nostra terra», con le immagini di decine di iraniane illustri rigorosamente in hijab. Bastano poche ore, cala il sipario e si scopre l’inganno. Si sfilano quasi tutte. La scrittrice Simin Daneshvar, che descrisse per anni l’oppressione patriarcale e fu costretta a indossare il velo solo quando i capi religiosi lo resero obbligatorio. La scalatrice Parvaneh Kazemi, che denuncia su Instagram «il nome e l’immagine di noi donne sono usati solo per commettere abusi». L’attrice Fatemeh Motamed-Arya, che posta un video a capelli sciolti e grida «sono la madre di tutte le figlie assassinate in questa terra». La fotogiornalista Nooshin Jafari, che non può gridare la sua rabbia per essere stata sbattuta in quel maledetto poster, ma solo perché marcisce in galera per aver «insultato i sacri principi dello Stato».

Da novanta giorni il Paese è in rivolta, tra cortei e manifestazioni continue in 170 città e 31 regioni. Da tre giorni le fabbriche sono in sciopero, sono chiusi centri commerciali, bazar, caffè e ristoranti. Focolai di una sollevazione popolare diffusa, che non ha precedenti se non nella Rivoluzione Khomeinista del 1979, che abbattè il bimillenario dominio imperiale persiano e costrinse Reza Pahlavi all’esilio. Fu proprio il 7 marzo di quell’anno che il «Consiglio dei Giurisperiti» decretò il ripristino della Sharia, la reintroduzione della pena di morte e l’introduzione del velo obbligatorio per le donne.

Oggi, di fronte alla ribellione dei suoi figli, il potere sciita è compatto, non arretra, e mostra ancora di più il suo volto retrivo, intollerante, crudele. Almeno 58 bambini sono caduti durante i disordini, sotto il fuoco dei poliziotti. Kian Pirfalak, 9 anni, è stato freddato mentre era in macchina con i suoi genitori a Izeh, nel Khuzestan settentrionale. AI suo funerale, di fronte a decine di migliaia di persone, la madre in lacrime ha gridato accuse furenti contro il regime. Tre giorni dopo, chissà sotto quali costrizioni, ha dovuto ritrattare tutto davanti alle telecamere, dicendo che suo figlio è morto «per colpa dei terroristi». Sulle saracinesche chiuse per sciopero le amministrazioni cittadine hanno affisso un cartello: «Negozio sotto osservazione». Metodi da leggi razziali dell’epoca nazifascista. Ma questo stesso potere sciita è anche allo sbando. Non capisce come sia possibile che le giovani donne iraniane ispirino una Contro-Rivoluzione dal basso e senza leader. Che reclamino libertà occidentali e per questo siano pronte a morire proprio nel momento in cui il mondo si divide e si polarizza lungo la linea di frattura democrazie/autarchie. Che le stesse masse che negli Anni ’70 rovesciarono lo Scià oggi combattono i Mullah, urlando tutta la loro rabbia dopo 43 anni di resistenza silenziosa alla misoginia istituzionalizzata dell’establishment religioso.

La «Rivoluzione delle Donne», per la guida suprema Khamenei, è impossibile da comprendere e tollerare proprio perché colpisce il cuore della teocrazia, che ha fatto del controllo sul corpo femminile uno dei principi fondamentali della sua auctoritas, del suo sistema educativo, del suo modello sociale. Per questo, anche se nasce da motivi diversi, la protesta ora si allarga, cambia di segno, investe fronti e orizzonti più vasti. Compreso quello economico: l’Iran è una nazione ricca di riserve di petrolio e di gas, ha una popolazione con un’età media di 32 anni e un tasso di istruzione elevato, ma dal 2012 patisce le sanzioni degli americani, la corruzione endemica, il Pil molto basso (mentre fino al ’79 cresceva più di Turchia e Corea del Sud). È ovvio che quelle migliaia di ragazze e ragazzi che ogni giorno corrono per le vie di Teheran, di Mashhad, di Esfahan, facendo volare i loro foulard e facendo saltare i turbanti dei passanti, chiedono insieme la de-islamizzazione della Repubblica, ma anche una società più aperta e più moderna, finalmente laica e plurale.

E dunque sì, per tornare alla Lolita di Nafisi, «quel pezzo di stoffa» racchiude tanta Storia e innumerevoli storie, individuali e collettive. Riguarda le donne iraniane, mortificate da quelle vesti nere che, come scriveva Oriana Fallaci, le riducono in «sciami di pipistrelli umiliati». Ma attraverso di loro incarna i diritti di tutte le donne, e in fondo di tutti noi. Mentre in Iran cadono Mahsa e le altre, in Afghanistan il leader supremo Haibatullah Akhundzada dispone il divieto per le donne di frequentare palestre, parchi, bagni pubblici, e in Indonesia, nella provincia di Aceh, le autorità islamiche reintroducono la fustigazione pubblica per le adultere.

Di fronte a questo scempio, l’Europa osserva, balbettando condanne di rito. Non c’è tensione, e meno che mai mobilitazione. Perché? Sicuramente pesa la realpolitik, che induce a non stuzzicare troppo la tirannia khomeinista: l’Iran è una potenza regionale ormai prossima ad essere anche potenza nucleare, è una minaccia permanente per Israele ed è il principale alleato di Putin prima nella guerra in Siria e ora in quella all’Ucraina, alla quale partecipa con generose forniture di droni Shahed-129 e Shahed-191. Probabilmente influisce anche un certo nostro accidioso relativismo culturale e morale, come sostiene Giuliano Ferrara: la nostra indisponibilità a comprendere l’opposizione tra assoluti, e quell’idea di Occidente come «pasticcio di disvalori» degno della cancel culture. Può darsi, anche se mi spaventa sempre le logiche esasperatamente binarie da «scontro di civiltà». Ma so che qualcosa possiamo e dobbiamo fare. Noi, come giornale, lo stiamo facendo. L’appello e la raccolta di firme, per salvare la vita di Fehimeh e chiedere la liberazione di tutti i giovani arrestati dal regime iraniano, è una piccola grande pietra lanciata nello stagno dell’indifferenza. Siamo già ben oltre le 100 mila firme, hanno aderito comuni cittadini e personalità della politica, della cultura, del cinema, dello spettacolo. Vi chiediamo di partecipare e di sostenere ancora questa nostra iniziativa. Quel loro grido di battaglia, «Zan, Zendegi, Azadi», è e sarà sempre anche il nostro: Donna, Vita, Libertà.

 

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