Cappellini in cattedra da le pagelle, scopri i “cocchi” del prof

Stefano Cappellini La Repubblica 23 dicembre 2022
Hanno tutti ragione,  dal semaforo Meloni al ripetente Salvini, le pagelle del 2022
Doveva essere il suo anno e lo è stato. La prima presidente del Consiglio ha realizzato un piccolo capolavoro se raffrontato al partitino fondato pochi anni fa da cui è partita e alla mai rinnegata estrazione postfascista.

 

Sebbene la tattica adoperata – a dispetto delle lodi in arrivo dai molti e improvvisati neo-estimatori – non sia stata particolarmente sofisticata: ferma all’opposizione come un semaforo ha aspettato che si schiantassero i rivali interni e gli avversari esterni: è rimasta in piedi solo lei, come quel famosissimo pattinatore sul ghiaccio che vinse un oro olimpico perché quelli davanti a lui, tutti, caddero e si autoeliminarono prima del traguardo. Ora deve governare e la differenza con i tempi in cui poteva sbraitare e farla facile è già molto evidente. Ma anche il 2023 potrebbe riservarle un vantaggio notevole: per ora non ha antagonisti. Se il suo governo cadesse domani, potrebbe vincere le elezioni con ancora più margine nonostante le prove di dilettantismo fin qui fornite dal suo esecutivo.

Voto 7,5


Giuseppe Conte

L’anno della sua riscossa dopo aver tanto patito la parentesi draghiana. Molto sottovalutato dai suoi avversari, è capace di numeri di alta scuola. È stato: sovranista, populista, trumpiano. E poi: progressista, populista gentile, europeista. Nel 2022 è diventato: demoproletario, terzomondista, gandhiano. Ha imbracciato la battaglia pacifista dopo aver aumentato le spese militari più di tutti i recenti governi, si è scagliato contro “l’atlantismo cieco” dopo aver concesso ai messi dell’amministrazione Trump di aprire i nostri cassetti, ha tuonato contro la decretazione d’urgenza dopo aver governato a colpi di Dpcm, ha criticato Salvini sullo stop in mare alle navi delle ong e non occorre spiegare dove sia il problema. Un fuoriclasse vero. Sull’Ucraina ha brevettato la teoria della caldaia: si riforniscono gli ucraini di armi solo finché il livello non è pari a quello dei russi, raggiunta la simmetria si chiude il rubinetto.
Pensa di potersi divorare il Pd, che del resto voleva fare altrettanto con lui. Probabilmente non ci riuscirà del tutto, ma non mollerà lo spazio che si è preso a sinistra e, in ogni caso, non c’è da dubitare che all’occorrenza saprebbe ricrearselo altrove.

Voto 7


Silvio Berlusconi

Basterebbero le sue deliranti ricostruzioni del conflitto in Ucraina a qualificare il lungo addio alla politica del tre volte ex presidente del Consiglio e, soprattutto, ex padrone del centrodestra. Persino l’unico fatto positivo dell’anno, il ritorno in Senato dopo l’uscita per la condanna fiscale e la legge Severino, si è rovesciato in disfatta, con il Cavaliere ormai ridotto a esca per trabocchetti d’aula, come quello che ha portato all’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato (voto alla terzietà di La Russa: 0 spaccato). Dopo aver affossato qualunque ipotesi di successione ordinata oggi deve decidere se farsi saccheggiare il partito da Carlo Calenda, darlo in usucapione a Matteo Renzi o cederlo in franchising a Matteo Salvini. Gli restano il Monza e le battute sui pullman.

Voto 2


Enrico Letta

A dispetto di quanto sostengono i suoi detrattori, cresciuti a dismisura dopo il 25 settembre, l’errore più evidente l’ha commesso dopo il voto e non prima. Alle elezioni ha pagato soprattutto il conto di scelte e strategie ereditate. Certo, gli è mancata la capacità di rimediare in qualche modo, ma non era facile, e la campagna elettorale non era e mai sarà il terreno nel quale dà il meglio di sé. La decisione, in sé generosa, di restare in carica come segretario del Pd dopo la sconfitta per guidare il percorso congressuale si può invece ufficialmente considerare uno sbaglio. È servita più a chi voleva congelare il dibattito che a evitare il caos. E ha regalato alle altre forze di opposizione quattro mesi senza concorrenza che rischiano di pesare su tutta la legislatura.

Voto 5


Carlo Calenda

Ha attraversato ogni giornata dell’anno come su un ottovolante, un po’ per la nota esuberanza social, che lo porta a esprimersi ogni tot minuti su un ampio scibile, e un po’ per gli sbalzi umorali che fanno il paio con quelli politici: bacia Letta a suggello dell’alleanza elettorale e due giorni dopo lo molla, dice che un patto con Renzi gli fa orrore e poi si accorda per farci un partito, va a trovare Meloni per dare consigli sulla legge di bilancio dicendosi ammirato dalla sua biografia e alla fine non sopravvivono né i consigli né, forse, l’ammirazione. Di tutte le promesse della politica italiana è quella di maggior successo. Resta paurosamente in bilico tra l’ipotesi di essere uno dei pochi leader che possono fare boom e la possibilità che si sia già fatto tra gli elettori tanti nemici quanti Renzi e senza nemmeno essere passato da Palazzo Chigi.

Voto 6


Matteo Salvini

Un antico motto popolare sul gioco d’azzardo dice: non bisogna aver paura di quelli che perdono, bisogna aver paura di quelli che vogliono rifarsi. Perché, ovviamente, rischiano di fare danni molto maggiori, soprattutto a sé stessi. Dopo essere stato in cima al gradimento degli italiani Salvini ha conosciuto un declino rapido e implacabile, scandito dai suoi marchiani inciampi. Tornato al governo ha cercato di replicare tutti i numeri che gli avevano dato il successo, come quegli attori finiti nel cono d’ombra, ma la strada è impervia: se il governo va bene, incassa Meloni: se va male, non è certo lui che può trarne giovamento. I suoi affanni del 2022 hanno resuscitato persino la Lega lombarda di Bossi e il dio Po. Salvini ha scommesso tutto sul Ponte sullo Stretto, che i fan della serie Boris paragonerebbero alla serie tv su Machiavelli (cioè, per tutti gli altri, una cosa che non si fa e non porta lontano chi se la intesta).

Voto 4


Stefano Bonaccini

Senza dubbio il candidato più solido alla segreteria dem. Una qualità da sbandierare con accortezza perché in molti elettori prevale la richiesta di uno strappo e, da questo punto di vista, il suo lungo curriculum di partito rischia persino di essergli d’intralcio. È indiscutibilmente un uomo del fare, ma sa già che non basta e del resto, senza la sferzata naif delle Sardine, oggi forse al posto del buongoverno emiliano ci sarebbe la leghista Lucia Borgonzoni. Il pragmatismo non basta per risollevare le sorti di un partito nelle condizioni del Pd, tanto più che qui non si tratta di andare a governare ma di guidare quattro anni di opposizione. Consiglio non richiesto: attenzione a non calendizzarsi sui social, l’empatia e la disponibilità al dialogo (o la necessità di ribattere) non passano necessariamente per una risposta al primo account che passa.

Elly Schlein

È la vera sorpresa del congresso Pd e potrebbe pure vincerlo. Dalla sua ha: l’età e la possibilità di presentarsi come la sola proposta di rottura a un elettorato esasperato da anni di delusioni e di false ripartenze. Contro di lei giocano: l’inesperienza e qualche semplificazione di troppo nel programma. Se al Pd bastasse recuperare un profilo di sinistra-sinistra per risolvere i suoi guai, Fratoianni e Bersani avrebbero già il 20 per cento anziché il 3 (uno e mezzo a testa). L’essere affiancata da esponenti esperti del partito, cosa della quale qualcuno le fa già una colpa, può aiutarla a superare alcune pose e allentare un sospetto che circola anche in ambienti a lei non ostili, e cioè che il suo vero problema non sia il presunto massimalismo ma una ancora eccessiva leggerezza per mettersi alla guida di un mezzo pesante e fragile come il Pd.

 

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