La serie con Castellitto e quella di Bellocchio, vince l’antipolitica

Stefano Cappellini La Repubblica 13 gennaio 2023
La serie con Castellitto e quella di Bellocchio
Dalla Chiesa e Moro. Nelle fiction in tv vince l’antipolitica

 

Era l’inizio degli anni Novanta quando il settimanale Cuore pubblicò l’esito di un sondaggio tra i giovani dell’epoca da cui emergeva un dato inquietante: una percentuale significativa era convinta che la strage di Piazza Fontana del 1969 fosse opera delle Brigate rosse.

Seguì accorato e giustificato dibattito, reso più amaro dal fatto che dalla bomba di Milano erano passati appena vent’anni, ancora meno dalle azioni brigatiste più efferate. Il trascorrere del tempo non deve aver migliorato la situazione né ha aiutato la pubblicistica su quegli anni, via via dominata da ricostruzioni ispirate a un complottismo sempre più simile alla narrativa di Dan Brown che a una storiografia politica.

Cosicché i giovani delle generazioni successive a quella del sondaggio di Cuore, che erano i nati nei Settanta, hanno potuto dividersi tra una parte, i più, che ha continuato a ignorare cosa fossero le Br e un’altra che ha cominciato a considerarle una costola della Cia o del Mossad o del Kgb o della Democrazia cristiana, persino.

Un delirio esoterico condito di massoneria, culti pagani, codici cifrati, aristocrazia mezzo deviata e mezzo satanica, fantasiosa ricerca di capi occulti delle Br che però non erano Ugo Tognazzi, come nella geniale copertina del Male, il giornale satirico che precedette e un po’ ispirò Cuore.
Se un merito va riconosciuto a Il nostro generale, la serie in otto episodi dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa, interpretato da Sergio Castellitto, che la Rai sta mandando in onda con ottimi ascolti, è di offrire una sintesi storica corretta e depurata dalle più viete dietrologie.

Un diciottenne può uscire dalla visione della serie, diretta da Lucio Pellegrini e prodotta da Stand by me e Rai, con un’idea di cosa erano le Br e cosa hanno combinato, di come Dalla Chiesa le affrontò rivoluzionando i metodi di indagine e fondando i nuclei antiterrorismo dell’Arma dei carabinieri. Non ci troverà invece, sempre il diciottenne, le idealizzazioni e i romanticismi che spesso hanno accompagnato il racconto cinematografico della lotta armata, e potrebbe persino convincersi che siano stati effettivamente i brigatisti a uccidere Aldo Moro. Mica poco, considerando in quale notte di vacche nere deve essersi sentito un giovane che si sia messo alla visione di Esterno notte di Marco Bellocchio, uscendone magari con il sospetto che Moro, in fondo, sia stato ucciso da Francesco Cossiga o da Benigno Zaccagnini.

Due serie, insomma, molto diverse e che in un certo senso sembrano ancora figlie delle fratture che si crearono a sinistra proprio in quella temperie: da una parte l’extraparlamentarismo di Bellocchio, in cui talvolta i brigatisti paiono meno colpevoli di certi politici, dall’altra un’ispirazione vicina alla linea del vecchio Pci, il cui ministro ombra dell’Interno, Ugo Pecchioli, passò sottobanco a Dalla Chiesa i nomi dei brigatisti emiliani usciti dal partito per passare in clandestinità.

Eppure, nonostante la diversa impostazione culturale, c’è un tratto che accomuna i due lavori ed è la cifra antipolitica. In Bellocchio è l’ispirazione principale. Nella serie su Dalla Chiesa è uno spiffero più leggero ma costante. Roma è citata sempre come sinonimo di palude, tranello, doppio gioco. Dalla Chiesa parla dei politici con un velo di disprezzo e ai giovani carabinieri dei nuclei antiterrorismo vengono messe in bocca frasi altrettanto sprezzanti.

Il passaggio più significativo è quello sull’arresto nel 1974 a Pinerolo dei capi brigatisti Renato Curcio e Alberto Franceschini, il primo e più clamoroso successo dei carabinieri di Dalla Chiesa. Nella fiction il generale si rammarica che Mario Moretti, destinato dopo l’arresto di Curcio a diventare il capo delle Br, sia scampato all’arresto giovandosi di una soffiata e a uno dei suoi giovani collaboratori dice: «O la soffiata è partita da qui», e Dalla Chiesa intende i carabinieri, «o dalla Procura, oppure… ». E qui il generale tace, ha alzato una palla che un suo giovane collaboratore schiaccia così: “Dalla politica!”. Sorriso compiaciuto di Dalla Chiesa.

In realtà Moretti non rischiò mai di essere arrestato quel giorno. Successe invece che la sera prima del blitz qualcuno, probabilmente interessato a far fallire l’operazione di Dalla Chiesa, fece avere a Moretti la notizia che l’indomani Curcio e Franceschini sarebbero caduti nell’agguato dei carabinieri. Moretti non riuscì a contattarli per avvertirli del pericolo, o almeno così sostenne nel libro intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca.

Molti citano proprio questo episodio a sostegno della tesi – mai dimostrata – che Moretti fosse una pedina di forze estranee alle Br e che il piano di questi poteri occulti fosse fin dall’inizio quello di metterlo a capo dell’organizzazione affinché alzasse il tiro degli omicidi fino a colpire Moro, vero obiettivo da abbattere. Anche Il nostro generale finisce per suggerirlo implicitamente quando fa dire a Dalla Chiesa che “la politica” ha salvato Moretti.

Curiosamente, ma non troppo, la serie è molto più sbrigativa su una delle vicende senz’altro inquinate dalla politica, cioè il ritrovamento a rate del memoriale di Aldo Moro nel covo milanese di via Montenevoso, pochi mesi dopo l’uccisione dello statista dc.

Una vicenda che verosimilmente, passò sulla testa dello stesso Dalla Chiesa, come ha raccontato lo storico Miguel Gotor in un bellissimo libro uscito per Einaudi qualche anno fa, Il memoriale della Repubblica.
Il fatto è che è lì, nella tragedia del caso Moro, che nasce l’antipolitica, quella dal basso e quella dall’alto, specialità quest’ultima tutta italiana, che ha ormai egemonizzato da decenni il dibattito pubblico e favorito, tra le altre cose, il dilagare del complottismo.

Resta, però, che in quell’Italia disgraziata furono spesso i partiti a garantire il miglior argine democratico, e a fornire allo stesso generale le risorse e le leggi che chiedeva, più delle forze dell’ordine e dei giornali infestati dalla P2 (in cui inciampò anche Dalla Chiesa, la serie su questo punto segue la linea dell’autobiografia del generale curata dal figlio Nando: fu un momento di debolezza e curiosità).

La linea della fermezza nei giorni del sequestro, che una pubblicistica superficiale e volgare presenta ormai solo come l’alibi di chi voleva Moro morto, fu decisiva per porre le basi della controffensiva democratica. Certo, nei partiti c’erano anche collusioni e opacità e la serie punta il dito soprattutto su Giulio Andreotti.

Ma la tenuta davanti alla sfida del terrorismo fu esemplare e, se Dalla Chiesa sconfisse il terrorismo, fu anche perché a Roma c’era ancora una politica degna di questo nome. Il nostro generale, in fondo, lo racconta meglio di quanto fa dire ai suoi protagonisti.

 

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