Le troppe ipocrisie nel voto sulle armi, atlantisti di facciata

Francesco Verderami Corriere della Sera 13 gennaio 2023
Le troppe ipocrisie
Sul decreto per gli aiuti all’Ucraina il voto è stato compatto, l’atteggiamento no
Il dibattito dell’altro ieri al Senato sul decreto per gli aiuti all’Ucraina ha fatto emergere un segnale preoccupante.

È vero, la maggioranza ha sostenuto in modo compatto il provvedimento deciso dal governo. Ma quando si affronta un tema così delicato come la guerra non basta votare: serve avere anche una postura, un tono di voce e soprattutto un linguaggio convincente che sia coerente con la scelta. Anche perché la scelta va spiegata a un’opinione pubblica che la politica ha il compito di guidare. Gli italiani stanno subendo le conseguenze del conflitto scatenato dalla Russia: famiglie e imprese pagano gli effetti dell’«operazione militare speciale» di Vladimir Putin con l’inflazione, la penuria di materie prime, la contrazione dei mercati. E nei sondaggi si avverte un malumore crescente nel Paese. Perciò il sostegno a Kiev andrebbe motivato senza offrire interpretazioni che alimentano il dubbio tra i cittadini e rinnovano vecchi sospetti tra i partner occidentali. Che senso ha autorizzare l’invio di armi agli ucraini se — come ha fatto la Lega — si accompagna il voto favorevole con l’avviso che non si potrà comunque pretendere la sconfitta di Mosca? Che senso ha parlare di pace se si lascia intuire che sia Volodymyr Zelensky a non volerla, sposando così la retorica russa?

Insomma, su cosa poggia la coerenza se il voto viene smentito dalle parole che lo accompagnano? Se si tratta di un messaggio che viene rivolto alla premier, nel gioco dei rapporti tra forze di maggioranza, è evidente il motivo per cui non possa essere la politica estera il terreno sul quale lanciarlo.

Questo approccio è dannoso perché — fuori dalle dinamiche di Palazzo — offusca il ruolo internazionale dell’Italia, che in undici mesi di guerra si è guadagnata il rispetto degli alleati impegnati nella trincea della democrazia, e il ringraziamento di un popolo in lotta contro un invasore sanguinario. E se l’ipocrisia non avesse fatto velo alla discussione in Parlamento, i rappresentanti di tutti i partiti — invece di attardarsi sugli armamenti — avrebbero potuto ricordare che più del contributo militare è oggi fondamentale l’aiuto che Roma fornisce a Kiev attraverso l’intelligence e la collaborazione tecnologica da remoto sul teatro di guerra, nelle azioni quotidiane di contrasto alle truppe di Putin. Tutte cose che sono valse il riconoscimento della Nato.

L’altro elemento distorsivo del dibattito al Senato è stato l’assenza di realismo che rischia di incrinare il rapporto con l’opinione pubblica. Utilizzando la retorica della pace (obiettivo a cui ovviamente tendere) si è nascosta la comune consapevolezza che il conflitto non sarà destinato a terminare in tempi brevi. È come se la politica volesse deresponsabilizzarsi invece di assumersi il compito di far comprendere al Paese la verità della situazione: il fatto cioè che le difficoltà continueranno. Le voci dissonanti nella maggioranza testimoniano che su uno dei principali temi d’indirizzo non c’è chiarezza. E che l’intesa dovrà essere testata quando le prove si faranno più difficili. In ogni caso non è un buon viatico, visto che non sono passati nemmeno quattro mesi dalle elezioni.

Quanto all’opposizione, il profilo tardo-pacifista dei Cinquestelle che accusano i loro avversari di essere agli ordini di Washington, sollecita una domanda: cosa sarebbe accaduto oggi se a palazzo Chigi si fosse trovato Giuseppe Conte? È un interrogativo che si pongono molti (non tutti) nel Pd.

 

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