L’Occidente contro Putin e la geopolitica di Amadeus

Massimo Giannini La Stampa 29 gennaio 2023
L’Occidente contro Putin e la geopolitica di Amadeus
Ci stiamo riuscendo, anche stavolta. A fermare le miserabili baruffe tra comari da talk show non bastano l’odio nel ventre d’Europa e il nemico alle porte d’Oriente. A stoppare la rancorosa intifada digitale tra webeti non bastano undici mesi di orrore, di sangue, di morte.

A stoppare la patetica contesa tra Cretino Collettivo con l’elmetto e zelanti Putin-Versteher col colbacco non bastano 6.702 civili ucraini massacrati e 123 mila russi caduti al fronte. A raffreddare i cervelli e a far palpitare i cuori non bastano la paura di un allargamento del conflitto, con la Casa Bianca che autorizza il comando di Kiev a effettuare attacchi diretti alla Crimea, e la minaccia di una nuova offensiva di Mosca, con altri 200 mila tra soldati e coscritti che già premono ai confini bielorussi.

La tragedia della guerra degenera nella farsa su Sanremo. Con zero gravitas e poco senso della Storia, giochiamo i destini della civiltà occidentale sul palco dell’Ariston. In ossequio alle regole del “gran mischione” (come lo definisce Michele Serra), il video-saluto di Zelensky finirà impacchettato tra uno strillo dei Maneskin e un borborigmo di Achille Lauro. Il suo grido di dolore risuonerà fortissimo, tra un selfie di Chiara Ferragni e uno smile di Chiara Francini. Due minuti, non di più. Giusto il tempo di ricordare che, mentre noi aspettiamo trepidanti il verdetto sui big ammessi allo spareggio finale, a Kharkiv e a Bakhmut donne e bambini continuano a morire sotto i bombardamenti dello Zar. Poi via, come sempre, show must go on. “Perché Sanremo è Sanremo”, come recita il claim del contenitore più nazional-popolare della Patria.

E in quel teatro tra i fiori abbiamo sempre ingoiato e digerito di tutto, dall’Armata Rossa a Michail Gorbacev, dai metalmeccanici disoccupati agli orchestrali sindacalizzati, da Favino che recita la poesia dei migranti a Saviano che ricorda il martirio di Falcone. Volete negare le luci della ribalta al presidente ucraino, che oltre tutto da consumato attore qual è sa sfruttarle sempre al meglio, come ha già dimostrato alla Mostra del cinema di Cannes o ai Grammy di Las Vegas?

A questo si riduce, il nostro discorso pubblico. Zelensky a Sanremo, sì o no, col solito frastuono di cori da curva. Stavolta brillano per ottusità militaresca gli ultras del sì, pronti a cavalcare persino il delirio di qualche imbecille malato di sindrome maniacale da tarda par condicio che dice: «Se parla Zalensky allora serve il contraddittorio».

Un’idiozia che andrebbe tacciata da un pietoso silenzio. E invece la “Coalition of the Willing de’ noantri” la prende sul serio, e la usa non solo per sostenere le ragioni della comparsata del presidente ucraino, ma anche per riaprire la caccia ai contrari, sperando che siano tutti “rosso-bruni” e tutti “arruolati” al partito pro-Putin (da notare il verbo, non a caso proprio delle caserme). Ma stavolta gli va male, perché a esprimere dubbi sull’opportunità dell’operazione non sono solo gli appositi Conte e Salvini, ma anche i Bonaccini, i Cuperlo, i Calenda. Un “partito” composito e troppo trasversale, per essere bollato di intelligenza col Cremlino. Fate uno sforzo, brothers in arms, e magari ci arrivate anche voi. Forse non aiuta la causa di quel popolo aggredito e martoriato, mischiare la guerra e i Cugini di Campagna (di nuovo Serra).

Forse così si svilisce anche quell’immensa catastrofe dentro il frullatore della Grande Banalizzazione Contemporanea, dove un missile su un condominio finisce per valere quanto una “bomba” di Fedez. Non serve aver cenato all’Hotel Metropol con Savoini e il vice-primo ministro dell’energia Kozak, per sostenere con un minimo di ragionevolezza che “l’alto” di un sanguinoso conflitto bellico stona con “il basso” di un giocoso concorso canoro.

Volete davvero “svegliare le coscienze” del torpido popolo sanremese su quello che sta succedendo sull’uscio della nostra civilissima Europa? È cosa buona e giusta. Ma allora non dategli due facili minuti pre-registrati di speech zelenskiano. Piuttosto sbattetegli in faccia le immagini strazianti dei corpi violati dai russi a Bucha e a Irpin, le foto dei bambini ammazzati per strada, il pianto delle donne stuprate e torturate negli scantinati. Allora sì, magari qualche sussulto morale vibrerà anche nell’italiano medio stanco di guerra, che come ci avverte Alessandra Ghisleri sente lontanissimo quel conflitto e non vuole mandare altre armi per alimentarlo.

Io lo farei, perché trovo pelosa l’ipocrisia di chi non vuole mai turbare gli animi, salvandosi la coscienza con i rituali warning da burocrazia giornalistica. “Attenzione, le immagini che state per vedere potrebbero offendere… ecc. ecc…”. Nell’agosto del 2015 non fu la foto straziante del corpicino del piccolo Alan Kurdi, riverso sul bagnasciuga di Bodrum, a sconvolgere il mondo e a costringere Angela Merkel ad accogliere con un coraggioso “Wir Schaffen Das” sei milioni di siriani? Per questo, adesso, ringrazierei Zelensky del contributo, ripetendogli che l’Italia è e sarà sempre al suo fianco nella lotta contro l’autocrate criminale di Mosca.

E poi gli direi che non lo mandiamo in onda a Sanremo. Sono sicuro che non se ne avrebbe a male: sia perché al suo posto trasmetteremmo le immagini delle indicibili sofferenze della sua gente, sia perché lui del nostro Festival ignorava persino l’esistenza, come dimostra il suo sguardo stupito, quando Bruno Vespa nella sua video-intervista gli propone di partecipare con un collegamento. E sono anche convinto che la Rai non perderebbe un solo punto di share, vista la collaudata autosufficienza dell’unico “format totale” che, insieme a qualche buona fiction, gli salva ancora il palinsesto.

Dato a Sanremo quel che è di Sanremo, resta la guerra. E questa è la vera Apocalisse su cui dovremmo ragionare, senza facili schematismi né opposti ideologismi. Persistono ancora, gli uni e gli altri. E inquinano la riflessione su quello che sta succedendo sul terreno. Al punto in cui siamo, fa scandalo persino parlare di “escalation”, perché secondo alcuni acuti osservatori equivarrebbe a battere la grancassa della propaganda putiniana. In realtà vuol dire solo dare un nome alle cose che accadono.

Quelle che tutti vediamo. Non dovrebbe esserci più bisogno di ribadire ogni volta che tutto il disastro nasce dalla follia neo-imperiale dell’ex apparatciki del Kgb, che c’è un aggressore e un aggredito, che noi siamo senza se e senza ma dalla parte degli ucraini, che la loro guerra è la nostra guerra, e via via sciorinando i noti preamboli non negoziabili del Canone Occidentale. Lo faccio di nuovo, a scanso di equivoci. Ma con la stessa chiarezza, oggi, dobbiamo ammettere che siamo dentro un gorgo di azione-reazione di cui dobbiamo prevedere gli sbocchi.

Se Putin non parla più di “operazione militare speciale” ma di “grande guerra patriottica 2.0”, e annuncia un attacco su vasta scala per la primavera, è chiaro che Zelensky deve alzare a sua volta il livello della risposta. Come scrive l’Economist (non la gazzetta della Piazza Rossa) ogni fase del conflitto coincide con un’arma iconica che ne misura l’intensità: lo scorso inverno furono gli Stinger terra-aria e i Javelin anti-carro, con l’attacco al Donbass in estate è toccato ai cannoni Howitzer da 155 millimetri, la riscossa ucraina d’autunno ha coinciso con i lanciarazzi Himars, adesso è l’ora dei corazzati Leopard 2 e Abrams.

Il via libera d i Scholz non è stato facile, tanto che il Financial Times ora parla di “Tank Angst”, che per i tedeschi cresciuti con le novelle di Stephan Zweig equivale a un misto di ansia e di angoscia “da carrarmato”. Ma un minuto dopo il sospirato via libera del Cancelliere, Zelensky ha già rilanciato, e ora chiede agli alleati anche i caccia da combattimento F-16. Se non è escalation questa, come la vogliamo chiamare? Ma se ancora non vi basta, allora usiamo le parole del nostro ministro della Difesa, che a Parigi col suo omologo francese dichiara: «Se i carrarmati russi arrivassero a Kiev e ai confini dell’Europa scoppierebbe la Terza Guerra Mondiale». Guido Crosetto lo dice per scaricare su Putin la responsabilità dell’escalation, e per giustificare l’invio di altre armi all’esercito ucraino. Resta il fatto che l’escalation è in corso. E può portare fin lì, alla Terza Guerra Mondiale.

Vuol dire che dobbiamo fermarci, scaricare Zelensky e lasciare che Putin si prenda l’intero bottino, dopo la Crimea l’intera Ucraina, di cui già controlla già il 17% del territorio? Ovviamente no. Dobbiamo continuare a sostenere la resistenza di Kiev. Ma dobbiamo anche avere ben chiari i passaggi successivi e le alternative possibili. Da un lato, come scrive Domenico Quirico, una lunga guerra d’attrito vedrà fatalmente la Russia in vantaggio. Dall’altro, come scrive Lucio Caracciolo, questo piano inclinato potrebbe farci scivolare prima o poi in una guerra diretta tra noi, l’Occidente euroatlantico, e la Russia. E allora anche noi italiani saremo chiamati a contribuire con molto di più che i semplici sistemi di difesa Samp T, previsti dal sesto decreto-legge in arrivo. Non è un auspicio. È solo lo scenario più agghiacciante, se davvero pensiamo che Putin non vada solo fermato, ma anche sconfitto sul campo.

Siamo di fronte, un’altra volta, al “nodo di Gordio” di Ernst Junger (appena uscito da Adelphi e di cui ha già scritto qui Massimo Cacciari). Al nostro sguardo fisso sul fulgore delle armi che domina la scena. Al “clangore delle catene del Caucaso”, che risuona da Tito a Tamerlano ai giorni nostri. Ai despoti che, come Gengis Khan, vedono la loro gloria e la loro potenza nel “non conoscere pietà”. E all’Occidente che in questi luoghi, oggi come ieri, per dimostrare che lo spirito libero domina il mondo, rischia di essere chiamato “a pagare il prezzo più alto”.

 

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