L’agenda della paura del governo Meloni

Carlo Bonini La Repubblica 4 febbraio 2023
L’agenda della paura del governo Meloni
La premier e i suoi hanno parlato di una “minaccia alla democrazia” accusando la sinistra di essere fiancheggiatrice della mafia

 

In soli sette giorni, mostrando un canovaccio di macroscopica rozzezza e spregiudicatezza, Fratelli d’Italia e la premier Giorgia Meloni, con la complicità irresponsabile e cinica di Lega e Forza Italia, hanno sequestrato la discussione e gli umori del Paese imponendo un’agenda della paura che propone oggi all’opinione pubblica una imminente “minaccia alla democrazia” (la mobilitazione degli anarco-insurrezionalisti) e che imbratta, calunniandoli, la storia e il presente della sinistra democratica italiana riducendola alla infame caricatura di genuflessa “fiancheggiatrice” di mafia e terrorismo.

Non c’era e non c’è dunque nulla di improvvido o di improvvisato nell’operazione politica — perché di questo si tratta — condotta dalla coppia Donzelli-Delmastro. La cosciente violazione del segreto di ufficio che proteggeva le conversazioni captate in carcere tra l’anarchico Alfredo Cospito e boss mafiosi è stata nient’altro che un’apertura di gioco il cui obiettivo ed esito non erano certo la difesa politica del regime carcerario del 41 bis (per altro mai messa in discussione in Parlamento e appannaggio di pressocché tutte le forze politiche), ma, al contrario, l’artificiosa costruzione di una forca cui appendere il Pd. Alzando, contestualmente, la temperatura del dibattito pubblico, della piazza, perché potessero produrre, come hanno immediatamente prodotto, una violenta reazione a catena che ora consegna Donzelli e Delmastro al ruolo di vittime (per entrambi è stata disposta la scorta) e che ripropone sui muri dell’università di Roma “La Sapienza” lugubri slogan e iconografie di un tempo che non c’è più. Così da poter accreditare finalmente un grottesco contesto novecentesco in cui il “nemico” torna ad essere il terrorismo che si affaccia nelle piazze e una sinistra prigioniera del suo “album di famiglia”.
Per mettere insieme questo Frankenstein e incassarne i dividendi politici (i sondaggi segnalano una ripresa di consensi verso FdI in coincidenza della campagna scatenata sul 41 bis), Giorgia Meloni ha imposto al suo ministro di Giustizia l’umiliazione di difendere, contro ogni evidenza documentale (come questo giornale ha puntualmente raccontato in questi giorni), il suo indifendibile sottosegretario Delmastro. Ha zittito, declassandoli a pallidi figuranti, gli esponenti di Forza Italia, a cominciare da un uomo di diritto come l’altro sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Ha incassato l’opportunismo di Salvini (che attende il giudizio elettorale della Lombardia al voto regionale come una sentenza sul suo futuro politico) e ha quindi lasciato che lo stesso Delmastro si abbandonasse a un ennesimo calunnioso affondo nei confronti del Pd. Chiamando per giunta a raccolta, nell’assalto alle opposizioni, ogni voce disponibile nel partito. Salvo poi, a spettacolo consumato, indossare, come sempre le capita, la maschera più adatta alla recita. Questa volta, da Berlino, quella della statista assorbita da ben altre incombenze. Pronta, dunque, a un fugace ed ecumenico appello alla responsabilità e al contegno verbale in nome “di un pericolo che molti stanno sottovalutando: quello dello Stato Italiano oggetto di attacchi da parte degli anarchici con l’obiettivo di rimuovere un istituto fondamentale come il carcere duro”.

Mai come in questo frangente, Giorgia Meloni dimostra dunque quanto solido e indissolubile sia e resti il suo legame tribale con l’anima nera del partito che ha fondato. Con la cultura squadrista di cui quel partito è figlio e in cui sono cresciuti campioni come i mazzieri Donzelli e Delmastro. E, contestualmente, quanto pesi il carico di rancore che impiomba, ispira e governa la sua azione di governo. Fino al punto di spingerla all’irresponsabilità. Solo una premier irresponsabile, infatti, può scegliere coscientemente che il suo partito giochi la partita dell’escalation verbale, della rottura delle regole parlamentari alzando a freddo la tensione di un Paese che non ne sentiva certo il bisogno spingendolo in una terra incognita e improvvisamente gravida di rischi. E solo una premier irresponsabile decide di giocare cinicamente con il destino di un detenuto in sciopero della fame, trasformandolo in martire da consegnare all’esempio o, peggio, alla violenza terrorista di un fronte anarco-insurrezionalista che, fino a due settimane fa, non registrava alcun particolare allarme nei sensori dei nostri apparati di sicurezza.

A cento giorni dal giuramento come premier, la storia della svolta moderata di Giorgia Meloni si mostra per quello che è sempre stata: una favola. Buona per chi ha voluto bersela. Perché solo chi è figlio ed espressione di una cultura autoritaria può concepire la criminalizzazione delle opposizioni parlamentari attraverso la manipolazione di brandelli di informazioni nella disponibilità del governo. E solo chi confonde il governo con il comando può pensare di sottoporre a freddo il Parlamento a una tensione come quella della settimana che si va chiudendo, ignorando i veleni che questo passaggio ha prodotto e continuerà a produrre.
Sarebbe ora di un qualche conforto pensare che le voci libere dentro Forza Italia e la Lega possano avere un sussulto capace di strapparle all’ignavia e all’irrilevanza politica cui sin qui le hanno consegnate Giorgia Meloni e i suoi eccitati colonnelli. Ma non accadrà. In cento giorni, il conformismo e la paura si sono mangiati tutto e tutti. Il dissenso è ridotto ad arte del mormorio.

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