Calabria, naufragio di Stato: cronaca di una sciagura annunciata

Laura Anello La Repubblica 1 marzo 2023
Calabria, naufragio di Stato: cronaca di una sciagura annunciata
Attivata la procedura di polizia invece di un’operazione di soccorso. Vacillano le prime ricostruzioni ufficiali

È la cronaca di una morte annunciata che fino a l’altro ieri rivelava buchi, incongruenze, pezzi che non combaciavano e che invece adesso purtroppo fila sempre più liscia, si compone a ritmo di ogni comunicato stampa e di ogni dichiarazione imbarazzata dei pezzi di Stato che non sono riusciti a salvare un barcone carico di famiglie in fuga dall’Afghanistan dei talebani, dal Pakistan dei conflitti eterni, dalla Siria bombardata. Un barcone carico di tutine, giocattoli, scatole di biscotti rimasti sulla spiaggia come chiodi sulla croce dell’Occidente.

Un barcone i cui pezzi di legno e i cui cadaveri sono stati raccolti da due pescatori calabresi, i terminali di una storia molto più grande di loro cominciata – come vedremo – almeno venti ore prima. Due pescatori che hanno fatto con le loro braccia – purtroppo ormai troppo tardi per molti, per troppi – quello che non sono riusciti a fare mezzi navali e aeronautici dell’ottava potenza mondiale, l’Italia. Il ministro degli Interni, Piantedosi (con l’attacco, poi smorzato, alle famiglie che mettono a rischio i propri bambini) sembra quasi aver voluto offrire il petto alle polemiche che lo riguardano di striscio, essendo coinvolte in questa storia altre due articolazioni dello Stato: la Guardia costiera, che dipende dal ministero dei Trasporti guidato da Matteo Salvini, e la Guardia di finanza, emanazione del ministero dell’Economia di Giancarlo Giorgetti. Il Viminale in questa storia c’entra poco, se non sul tema dei soccorsi in mare da parte delle Ong.

E se il procuratore di Crotone, che indaga sul disastro, ha escluso in prima battuta che l’inchiesta riguardi i soccorsi – su cui comunque sta acquisendo tutti gli elementi – si compone con sempre maggiore chiarezza il quadro di una sciagura annunciata, su cui le dichiarazioni sulle condizioni di mare proibitive o sulle mancate richieste di aiuto vacillano a ogni ora di più.
Il tema che emerge con chiarezza è che quella portata avanti dall’Italia non è stata un’operazione di ricerca e soccorso, una “Sar”, cosa che avrebbe fatto scattare una catena di soccorsi aerei e navali, ma un intervento di “law and enforcement”, cioè un’operazione «di polizia o di imperio che può essere esercitata in alto mare nei confronti delle navi e delle persone che si trovano a bordo». D’altronde, il primo mestiere di Frontex è proprio quello di aiutare gli Stati a controllare le proprie frontiere. Non a caso a intervenire è stata la Guardia di finanza, e non la Guardia costiera, che ha come suo compito primario il salvataggio di uomini (e che ha, ma a questo ci arriveremo, mezzi marittimi in grado di affrontare condizioni di mare in tempesta, molto peggiori di quelle del mar Ionio sabato).

È vero, le motovedette della Guardia di finanza vengono pure impiegate in operazioni di soccorso con il coordinamento della guardia costiera, ma non è questo il caso: in questa occasione agiscono “in proprio”. Tra i primi ad avere chiaro il quadro è stato, con i suoi, Gregorio De Falco, il comandante-eroe del «Torni a bordo, cazzo» urlato a Schettino in fuga dalla Concordia, poi senatore del Movimento Cinque stelle e ora tornato a guidare le navi, una delle voci più competenti sulle dinamiche di comando nel Mediterraneo. «Mi dispiace, non posso parlare», risponde se lo chiami, ma dal suo entourage trapela che cosa ne pensi di questa storia, alla luce della sua lunga esperienza.

Ma veniamo alla dinamica dei fatti, con un occhio preciso agli orari. Già, perché finora si è ritenuto che il conto alla rovescia terminato con i cadaveri spiaggiati cominciasse alle 22.30 di sabato 24 febbraio, quando un aereo della missione europea Frontex segnala alle autorità italiane che c’è un barcone carico di duecento persone che naviga a quaranta miglia da Crotone. E che invece, in realtà, ha un prologo diciassette ore prima, alle 4.57 del mattino di quel sabato, quando l’Mrcc (il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo) dirama un “warning”, un avvertimento generico, per un barcone diretto verso l’Italia di cui non si conoscono le coordinate, probabilmente è già il presidio turco di Frontex a dare l’allarme.

Ma bisogna aspettare le 22.30, con la segnalazione dell’aereo Eagle della stessa agenzia europea, per sapere esattamente dove si trovi quel barcone e quanta gente ci sia a bordo. E sebbene la Guardia costiera, dopo due giorni di silenzio (irrintracciabile anche il responsabile dell’ufficio stampa, al numero fisso risponde qualcuno che dice di «mandare una mail per avere informazioni») ieri sera spiegava che l’alert riguardava una barca che «risultava navigare regolarmente, a sei nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con una sola persona visibile sulla coperta della nave», la smentita è nei fatti.

Perché la fotografia termica inviata da Frontex racconta di un intenso calore che promana dall’imbarcazione, segno di una forte presenza umana in ogni sua parte, tradotto significano duecento persone a bordo o giù di lì. E questo solo fatto dice che quell’imbarcazione è in grave pericolo, un caicco di legno senza dotazioni di sicurezza, senza personale di navigazione esperto, stipato fino all’inverosimile.

A navigare in quel mare che poche ore dopo – e d’accordo che le condizioni meteo cambiano rapidamente, ma non fino a questo punto – sarebbe stato definito proibitivo perfino per le imbarcazioni di soccorso. Com’è possibile che un vecchio legno marcio navigasse dritto come un fuso in mezzo ai marosi? O il maroso non è poi così maroso o il barcone non procedeva affatto placidamente. «Possibile – si chiede l’ammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale della Capitaneria di Porto – che se scatta la segnalazione di un grande barcone che fa rotta verso l’Italia, per una sorta di stortura istituzionale, a essere attivata sia una procedura di polizia?».

Di certo c’è che Frontex comunica al terminale italiano dell’agenzia, a Pratica di Mare, gestita proprio dalla Guardia di finanza, e poi si allontana dal luogo di avvistamento perché – dice – sta per finire il suo carburante. A questo punto si decidono le sorti della tragedia. Perché non scatta il meccanismo di soccorso. Ed è la Finanza a intervenire – come dice nel suo comunicato – su un’imbarcazione «che presumibilmente poteva essere coinvolta nel traffico di migranti». Non si parla di soccorso, si parla di contrasto a un traffico clandestino sul mare. E nessuno monitora più quel barcone.

Bene, ma torniamo agli orari. Quando escono dal porto le motovedette delle Fiamme gialle? A mezzanotte e mezza, cioè due ore dopo che Frontex ha lanciato l’allarme. E perché così tardi? Perché – e questo è elemento fondamentale finora non emerso – le motovedette della Guardia di finanza impegnate in attività di “law and enforcement” possono intervenire soltanto nel limite delle dodici miglia territoriali, e quella barca è segnalata invece in acque internazionali, a quaranta miglia, dove non possono andare. Quindi in quelle due ore aspettano che si avvicini, calcolando la sua rotta.

Finché a mezzanotte e mezza escono in mare con due unità marittime, una motovedetta veloce (la 5006 della sezione operativa navale di Crotone) e il pattugliatore Barbarisi del gruppo aeronavale di Taranto, un po’ più capace di reggere le onde. Le condizioni meteo sono peggiorate, l’altezza d’onda è di 2,7 metri, una quasi bazzecola se fosse scesa in campo la Guardia costiera con i suoi mezzi praticamente inaffondabili, ma per gli uomini delle Fiamme gialle la navigazione diventa pericolosa. E poi che cosa succede quando arrancano in alto mare? Che quel barcone non c’è più, è sparito, come l’Olandese volante. Non trovano il target, nessuno l’ha più monitorato.

Così rientrano in porto, mentre la tensione – si suppone – sale e si prefigura il possibile disastro. Perché all’una di notte appare chiaro che c’è un barcone carico di duecento persone diretto verso le coste calabresi, e nessuno sa più dov’è. Escono di nuovo intorno alle 2 del mattino, ma rientrano ancora una volta: ricerche vane. Nessuno manda in volo un elicottero o un aereo per vedere dove sia finito quel caicco che ha nel ventre un carico di disperati ma porta il nome – si scoprirà poi dai rottami – del sogno di un’estate mediterranea: Summer Love. Ironia atroce.

E allora comincia un’attesa che ricorda quella dell’Apollo 13, la missione spaziale che deve far tornare l’equipaggio sulla Terra in emergenza, attraversando l’atmosfera, con un blackout di sei lunghissimi minuti. Ma questa volta il blackout di notizie dura ben due ore e mezza, e la notizia che spezza il silenzio non è un annuncio di salvezza. Poco dopo le 4 del mattino ne arriva una al reparto operativo aeronavale della guardia di finanza di Vibo Valentia, che avverte i carabinieri. È una chiamata allarmata, in un inglese incerto, che dice «Help», e non fa comprendere nulla di più.

Di sicuro, a quel punto – e questo è un passaggio ancora da chiarire – scatta finalmente il meccanismo di ricerca e soccorso a terra. «Solo allora – dice la Guardia costiera – sono giunte alcune segnalazioni telefoniche da terra relative a un’imbarcazione in pericolo a pochi metri dalla costa», aggiungendo che «né i migranti né altri soggetti» hanno mai inviato alcun allarme prima di allora. Sarà un pescatore, alle cinque e mezza del mattino, a essere chiamato da un amico della Guardia costiera: «Vai a vedere in spiaggia, pare ci sia una barca in difficoltà».

Quello, abituato a prendere seppie, si trova davanti a un mare di cadaveri. Il comunicato che ne segue è la cronaca di una sconfitta. «La Guardia Costiera di Reggio, che sta coordinando le attività di ricerca e soccorso in mare, ha inviato in zona due motovedette Sar Classe 300, provenienti da Crotone e Roccella Jonica, e un elicottero Aw 139 dalla Base Aeromobili di Catania. Le condizioni meteo in zona sono particolarmente avverse. Al momento sono state recuperate un totale di 80 persone vive – alcune delle quali sono riuscite a raggiungere la riva dopo il naufragio – e rinvenuti 43 cadaveri lungo il litorale». È l’inizio della fine. La fine di una storia che sembra arrivare dai versi di De André. Con un pescatore, anzi due. E uno Stato che «si costerna, si indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità».

 

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