“Il tramonto dei partiti alla marcia per la pace”. E se fosse la crisi della democrazia?

Lucia Annunziata La Stampa 8 novembre 2022
Il tramonto dei partiti alla marcia per la pace
La società civile, senza bandiere politiche, è stata la vera protagonista del corteo di sabato a Roma il segnale di un nuovo corso del Paese: lo scontento ha fortemente indebolito la rappresentanza

La manifestazione per la pace a Roma è stata una sorta di sguardo sul futuro. O meglio, di quel che potrebbe essere il futuro prossimo della politica nel nostro Paese.

Sei ore a guardare passare la sfilata sull’itinerario scelto, da piazza della Repubblica a Piazza San Giovanni, il classico percorso che a Roma ha fatto da scenografia a centinaia di altri cortei, restituivano la mappa visiva del cambiamento che c’è stato negli ultimi decenni nel nostro Paese.

Era per definizione una manifestazione della società civile, dunque senza la partecipazione ufficiale, con bandiere, dei partiti; ma il numero e la diversità delle organizzazioni presenti sono stati sorprendenti.
Fra i promotori va intanto citata la Rete italiana pace e disarmo, guidata da Europe for Peace, coalizione di oltre 400 organizzazioni, associazioni, reti, sindacati e comunità, che da mesi promuove eventi per protestare contro il conflitto ucraino e quelli nel resto del mondo. Molte le sigle del Comitato editoriale di Vita: Arci, Acli, Agesci, Coopi, Federsolidarietà – Confcooperative, Legacoopsociali, ActionAid, Amref, Ancc Coop, Anpas, Ciai, Cbm, Cittadinanzaattiva Onlus, Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, Fish, Federazione italiana per il superamento dell’handicap, Fondazione Arché, Fondazione Ebbene, Fondazione Exodus, Fondazione Albero della vita, Intersos, Mcl – Movimento cristiano lavoratori, Save the children Italia, Sos Villaggi dei bambini Italia e We World e il Mean (Movimento europeo di azione nonviolenta) che Vita ha contribuito a promuovere.

Alla lista che qui riporto, vanno aggiunte tutte le altre decine di altre sigle, da quella di Sant’Egidio, alla rivista Micromega, ad Articolo 1, a Robin ( collettivo di cui non ho capito lo scopo) a Parents for the future, e tantissime altre. Ogni sigla una causa di impegno – il clima, i diritti, l’appoggio contro il precariato, la difesa delle legge sull’aborto, e quella della cittadinanza. Se facciamo il conto della differenza fra quelle citate (33) e quelle che hanno aderito (400), immaginate una ulteriore lista fatta da altre 367 sigle. E se fra queste 367 inseriamo le bandiere come sempre perfette e dominanti della Cigl, è molto probabile che, dopo 5 ore, la partecipazione sia stata effettivamente di 100mila persone. Ma anche fosse la metà, 50mila, è un numero significativo da mettere insieme per una mobilitazione della società civile.

Non rilevata quasi in questa mappa visiva la società politica. I partiti, come abbiamo detto, sono venuti – per scelta- con una adesione «non invasiva» di questa identità sociale. Per cui erano assenti volutamente senza schieramenti organizzati e bandiere. Tuttavia, le organizzazioni presenti, di cui le più grandi erano M5s e Pd, hanno mantenuto un profilo da cittadini singoli. Il M5s ha fatto uno sforzo in più per avere propri aderenti anche da altre città, il Pd ha inviato i suoi (pochi) dirigenti a ranghi più sciolti. Che sia stata una scelta giusta o sbagliata, non è questo il punto. Rilevante è che per la prima volta da anni abbiamo visto sfilare una manifestazione ufficiale e impegnata in una grande causa nazionale, senza che fosse dominante il profilo dei grandi partiti.

Questo è lo sguardo sul futuro. E se oggi, ancor prima di domani, fosse questo il profilo della politica reale, dello spazio di scelta nel nostro Paese, mentre ci affanniamo come classe politica, o media, a osservare, raccontare e discutere una realtà che non c’è più?

Non è per nulla fantapolitica. I migliori politologi del nostro Paese, Sartori, Pasquino, Ignazi per citarne alcuni, hanno affrontato il tema, soprattutto nella forma del distacco dei cittadini. Ma soprattutto questa fine progressiva dell’influenza dei partiti è nella nostra esperienza quotidiana. Queste organizzazioni che per tanto tempo hanno costituito l’ossatura della partecipazione, il punto di contatto fra strati sociali ed élite ( come si direbbe oggi), o, anche, il canale attraverso cui salivano ascensori sociali che non passavano in altri spazi, sono finite con la Prima repubblica. Come scrive Pasquino nel 2002, «nel corso della Prima Repubblica, di partiti rilevanti, vale a dire che abbiano, come esige la teoria di Sartori, potenziale di coalizione e di ricatto, non ne nascono. Anzi pochissimi sono i partiti che nascono…e ancora meno numerosi sono i partiti che muoiono». Ignazi così descrive, nel 1997, la staticità del sistema: «Ancora alle elezioni del 1992 la staticità del sistema partitico è impressionante: gli otto partiti tradizionali (dalla Dc al Pr) sono ancora tutti presenti, con l’unica variante della trasformazione del Pci in Pds».

Ed è interessante che citi proprio la trasformazione del Pci in Pds, perché uno dei grandi cambiamenti che pesa sui nostri partiti è proprio la stessa data fatidica che ha ridisegnato il mondo, il 1989, con la caduta del muro di Berlino. A questo vanno aggiunti i tanti altri fattori che abbiamo vissuto, le inchieste di Mani pulite, la fine dell’idea di un partito cattolico dopo la uccisione di Moro, i referendum elettorali, l’eccesso di debito pubblico, e l’ingresso in Europa. Nasce nella Seconda Repubblica non a caso l’inarrestabile trend dell’astensionismo, segno della disaffezione ai partiti e petrolio per la macchina del populismo, da cui nasce una nuova galassia di piccoli e grandi partiti, spesso più veloci nel distruggersi che nell’affermarsi. Potremmo continuare estendendo il discorso all’equivalente velocità e caducità della durata di governi e ruoli istituzionali dal 2011 fino ad ora.

Ma quello detto fin qui basta, giusto per ricordare in che tempesta è da anni la politica nel nostro Paese. Lo dico perché spesso, e con troppa superficialità, si continua a scaricare sui partiti quella che è una crisi di sistema.

Ed è tuttavia vero che i partiti oggi hanno come credibile prospettiva quella di ridursi ulteriormente a dimensioni così irrilevanti da essere quasi una sparizione. Sparire d’altra parte è un fatto di efficacia – di sicuro queste organizzazioni di efficacia ne hanno già sempre meno.

Il più grande partito che ha di fronte il problema di cambiare o perire è oggi il Pd, ma questo è vero anche per il M5stelle per il quale il rischio si è materializzato molto presto. Il rischio è presente per altro forze politiche anche al governo, come Lega e Forza Italia, e se oggi Fratelli d’Italia è vincente, ricordiamoci che la sua forza attuale è il risultato dello scontento della crisi di tutti gli altri partiti nominati – e lo scontento è materiale troppo liquido per permettere grandi consolidamenti.

Quante possibilità ci sono dunque che un sistema così scosso riesca a riprendersi?

Non dovremmo, forse, cominciare a prendere atto che le organizzazioni onnipotenti, che abbracciano ogni aspetto della vita pubblica e offrono soluzioni a ogni aspetto della vita individuale dei cittadini, sono perse definitivamente? E che, forse, dovremmo accettare che il gigantismo politico dei partiti è solo l’alimento del loro continuo bisogno di potere per restare in piedi? Non ho soluzione a queste domande, ma forse non è sbagliato innestarle nella discussione in corso.

 

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