Mondiali Qatar 2022 tra diritti civili e affari: perché non è mai solo sport

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 20 novembre 2022
Mondiali Qatar 2022 tra diritti civili e affari: perché non è mai solo sport
Non credo si possano condannare gli appassionati che seguiranno i Mondiali in tv dopo anni così difficili — e non sono ancora finiti —: il calcio è l’infanzia del mondo

 

Lo sport non è mai soltanto sport. Soprattutto quando diventa una competizione mondiale, un’occasione di propaganda e di affari. Nel 1964 Giorgio Bocca scrisse che era una vergogna che a inaugurare ilare i Giochi fosse l’imperatore.

«Neppure nell’ora dei più tremendi massacri della guerra Hirohito si era distolto dalla cura dei suoi fiori» scrisse il grande giornalista, e veniva per questo sfidato a duello dai samurai della Compagnia del drago nero (almeno così raccontava). Nel 1968, alla vigilia dell’Olimpiade di Città del Messico , l’esercito sparò sugli studenti nella piazza delle Tre Culture, i morti furono almeno 300, Oriana Fallaci restò ferita; dieci giorni dopo cominciarono i Giochi, rimasti nella memoria collettiva per il volo infinito di Bob Beamon e i pugni chiusi di Carlos e Smith (ma anche Evans, dopo il leggendario record dei 400, ignorò l’inno americano e si mise a giocherellare con il basco).

Nel 1972 l’attacco dei terroristi palestinesi e l’imperizia della polizia tedesca causò un massacro che non interruppe l’Olimpiade. Nel 1976, l’anno della rivolta di Soweto, mancava quasi tutta l’Africa, per testimoniare contro l’apartheid. Nel 1980, un anno dopo l’invasione dell’Afghanistan che doveva rivelarsi il Vietnam sovietico, l’America e alcuni Paesi alleati tra cui la Germania Ovest boicottarono i Giochi di Mosca; l’Urss e altri Stati comunisti resero la pariglia quattro anni dopo a Los Angeles. I Giochi di Atene 2004 contribuirono al collasso della Grecia, quelli di Pechino 2008 celebrarono il regime capital-comunista. Ma i Giochi del 1992 avevano segnato il rilancio di Barcellona, come l’Olimpiade invernale del 2006 mise di buon umore i torinesi.

Il Brasile ha ospitato Mondiali e Olimpiadi a distanza di due anni, in un contesto del tutto diverso. Nel 2014 si era ancora sull’onda lunga del boom economico, anche se l’Arena Corinthians di San Paolo aveva fischiato la presidenza Dilma. Nel 2016 era iniziata la crisi, lo stadio olimpico di Rio non era nuovo ma riciclato, i brasiliani apparivano più tristi che dopo i sette gol presi due anni prima in semifinale dalla Germania.

La più bella Olimpiade degli ultimi tempi è stata quella di Londra 2012: l’equitazione a Greenwich, il nuoto di resistenza a Hyde Park, il beach-volley a 400 metri da Buckingham Palace, il tennis a Wimbledon (Federer perse in finale da Murray, esausto per la semi con Del Potro durata 4 ore e 26 minuti, record per una partita al meglio dei tre set, anche perché il terzo finì 19-17). Insomma lo sport era tornato a casa, là dove era nato. Gli inglesi evitarono il gigantismo puntando sull’efficienza, il pubblico sorrise con le immagini della regina (e della sua controfigura) che si paracadutava sullo stadio con James Bond, e tutti cantammo in coro «Hey Jude» con Paul McCartney.

Quattro anni fa, all’inaugurazione dei Mondiali in Russia, sulla metro per lo stadio Lužniki, ex Lenin, ero l’unico civile in un vagone pieno di militari comandati ad applaudire Putin; anche se il vertice della propaganda erano stati i Giochi invernali del 2014 a Sochi.

In sintesi, la politica e il business sono sempre congiunti ai grandi eventi dello sport. Questo non giustifica gli scandali di Qatar 2022, l’assegnazione tutt’altro che limpida, il costo umano inaccettabile delle infrastrutture, l’impatto ambientale degli stadi, l’oscurantismo dei governanti.

Ma questo non può impedirci di parlare di calcio.
Perché alla fine, quando cominciano le competizioni, il contesto tende — purtroppo — a scomparire, e gli occhi del pubblico mondiale finiscono inevitabilmente per concentrarsi sul pallone. Non dico che sia giusto; dico che è così. Semmai c’è da lavorare per moralizzare il calcio internazionale, rendere trasparenti i meccanismi d’assegnazione, esigere standard di umanità e di sicurezza. Ed è utile ricordarsi che i Paesi democratici, dove sono rispettati i diritti umani e la legge prevede l’uguaglianza tra le persone «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (articolo 3 della Costituzione italiana), restano nel mondo una minoranza.

Non credo si possano condannare gli appassionati che seguiranno i Mondiali in tv. Saranno moltissimi. Più di quelli preventivati. Perché gli europei, e non solo loro, escono dal periodo più brutto della vita. Anzi, temono di non esserne ancora usciti. Pandemia, prezzi, guerra, minaccia nucleare. Il calcio è l’infanzia del mondo. La sua storia, diceva Borges, ricomincia ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada.

I nostri bambini non sono colpevoli di nulla. Vedranno il passo d’addio di Messi e di Cristiano Ronaldo. Si emozioneranno per l’attacco francese — Giroud è pronto ad affiancare Mbappé e Griezmann — e per la giovane Spagna. Impareranno a non sottovalutare mai la Germania. Perdoneranno all’Inghilterra l’arroganza punita della finale europea. Tiferanno magari per le squadre africane. Conosceranno il brivido che provai quando nel 1973 mio padre mi prese in braccio e davanti alla tv mi disse: quelli sono i brasiliani e giocano meglio di tutti (vincemmo 2-0, gol di Riva e Capello, e ci illudemmo che i Mondiali dell’anno successivo in Germania sarebbero stati nostri; fu invece «Azzurro tenebra»). E tra quattro anni si torna in Messico, che dividerà onori e oneri con Usa e Canada; perché i costi finanziari e sociali di un grande evento sportivo è meglio dividerli, in questo caso tra le tre grandi democrazie nordamericane.

 

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