Giancarlo Caselli La Stampa 17 gennaio 2023
Troppi complici nei salotti buoni
Due date lontane (trent’anni) eppure vicine: 15 gennaio 1993, arresto di Salvatore Riina, e 16 gennaio 2023, arresto di Matteo Messina Denaro. Due eventi storici per l’antimafia e per la nostra democrazia.
Grazie quindi, senza alcuna retorica, ai magistrati e agli inquirenti (i carabinieri del Ros) che hanno compiuto questa ultima preziosa e importante operazione.
Per quanto mi riguarda direttamente, l’arresto di Messina Denaro, diventato uno dei boss più potenti (forse il più potente) di tutta la mafia siciliana, mi riporta alle stragi del 1993, insieme ad una delle storie più dolorose del mio periodo di lavoro alla procura di Palermo. Mi riferisco al sequestro (23 novembre 1993) del ragazzino tredicenne Giuseppe Di Matteo, che, dopo una prigionia di 779 giorni, fatta di maltrattanti e torture, venne strangolato e sciolto nell’acido dai mafiosi. Un fatto orribile (gestito tutto nel Trapanese, “feudo” di Messina Denaro) che sprofonda il genere umano negli abissi della crudeltà. Commesso solo perché Giuseppe era figlio di suo padre, Santino.
Il pentito che il 23 ottobre 1993, in un lunghissimo interrogatorio da lui stesso richiestomi, cominciò con la parola «Capaci», che subito fece affiorare nella mia mente il volto di Giovanni Falcone e della moglie, la scorta, l’immagine dell’autostrada squartata. Perché Di Matteo proseguì elencando e descrivendo fatti e protagonisti della strage del 23 maggio 1992, alla quale lui stesso aveva materialmente partecipato. E fu come il disvelamento di una verità attesa da un Paese intero.
Fra l’arresto di Riina e quello di Messina Denaro vi sono state altre catture “eccellenti”: Brusca, Bagarella, Aglieri, Ganci, i fratelli Graviano, Provenzano… per ricordarne solo alcuni, si può dire che Cosa nostra è stata sconfitta? Che abbia subito molti durissimi colpi è fuori discussione. Ma non si deve dimenticare (mai!) che essa è anche e soprattutto un’organizzazione criminale strutturata, non una “semplice” emergenza. Va affrontata e colpita appunto come organizzazione, oltre che nelle singole componenti individuali. Va colpito inoltre il lato oscuro del pianeta mafia, le “relazioni esterne”, quell’intreccio di coperture, complicità e collusioni che sono la spina dorsale del potere mafioso. E qui è d’obbligo rivolgersi alla politica (tutta, senza distinzioni di casacca) per chiederle di essere meno assente: la mafia deve stare ai primi posti dell’agenda della politica che invece troppo spesso non lo fa.
Tanto più che la mafia è un camaleonte che cambia pelle di continuo per adattarsi alle diverse circostanze in cui deve operare. Le nuove leve mafiose in parte provengono dalle tradizionali “famiglie”, che hanno indirizzato figli, nipoti e parenti vari agli studi anche in prestigiose università italiane e internazionali; in parte sono il prodotto di una operazione di “arruolamento”, lautamente remunerato, di operatori sulle diverse piazze finanziarie del mondo. Persone colte, preparate, plurilingue, con importanti e quotidiane relazioni internazionali al servizio del business mafioso che, proprio grazie a loro, assume e consolida un’apparenza “perbene” transnazionale e globale. Così la mafia trova sempre più accesso ai salotti “buoni” dove si fanno gli affari migliori.
La nuova mafia agisce su livelli più sofisticati rispetto al passato, ma le piste da seguire (come intuì per primo Falcone) sono sempre più legate al denaro, ai suoi possibili percorsi e impieghi, ai collegamenti internazionali, agli investimenti, alle centrali off shore, all’espansione del mercato delle criptovalute e delle monete elettroniche, alle nuove tecnologie nel settore finanziario, alla blockchain, alla high frequency trading, all’import-export, ai fondi di investimento internazionali.
Si conferma il passaggio delle mafie dalla strada alle stanze ovattate dei consigli di amministrazione e delle grandi centrali finanziarie, dove si possono decidere i destini di un intero comparto economico: stabilendo acquisti, vendite di aziende, il prezzo di intere produzioni, lo spostamento di flussi di capitali da una zona all’altra, riuscendo persino a segnare i tempi e i percorsi di sviluppo o di declino di interi Paesi.
Ecco perché si richiede alla politica una speciale e costante attenzione. Anche sul piano della cooperazione internazionale. Per il fatto che, a dispetto dell’internazionalizzazione e globalizzazione del crimine organizzato, persiste un carattere ancora prevalentemente nazionale delle normative penali a base dell’azione di contrasto. E ciò non agevola, anzi inceppa l’efficacia degli interventi. Per fortuna ci sono novità che consentono di dire che la necessaria rivoluzione copernicana di un “linguaggio comune” nella lotta contro il crimine organizzato è ancora lontana ma sta facendo (almeno in Europa) i primi passi. Anche qui spetta alla politica di attivarsi, per evitare lo “stop and go” di cui abbiamo parlato su La Stampa di domenica scorsa.