Le stragi, il legame con Riina, la figlia Lorenza Alagna e le venti condanne per venti delitti

Giovanni Bianconi Corriere della Sera 17 gennaio 2023
Chi è Messina Denaro: le stragi, il legame con Riina, la figlia Lorenza Alagna e le venti condanne per venti delitti
Gli ultimi messaggi intercettati sui movimenti. Tra i delitti di cui è stato giudicato responsabile quello del bambino Giuseppe Di Matteo e quello di un vice-direttore d’albergo dove lavorava una ragazza austriaca di cui il boss si era innamorato

 

Ora che l’ultimo latitante è caduto , la transizione da una mafia all’altra può dirsi completata. Aprendo il capitolo dei segreti da svelare, quelli del passato e quelli del presente. I padrini delle stragi, registi e attori della strategia della tensione corleonese che ha violentato e cambiato la storia d’Italia, sono morti o sono in carcere, alcuni da quasi trent’anni; all’appello mancava solo lui, Matteo Messina Denaro, uno dei “rampolli” di Totò Riina, ricercato dal 1993 da subito dopo l’arresto del “capo dei capi”, mentre era in corso l’attacco terroristico di Cosa nostra alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti.
Per poi diventare l’ultimo sopravvissuto alla reazione dello Stato di quella stagione di sangue e di ricatti. Scalando nel frattempo i vertici dell’organizzazione mafiosa, diventandone non solo il capo ma anche un’icona, il simbolo dell’imprendibilità e dei segreti custoditi, dai delitti eccellenti ai rapporti inconfessabili con il potere. Per gli inquirenti e gli investigatori che l’hanno cercato così a lungo era una sfida da vincere; per il “popolo di Cosa nostra” un legame col passato e con la storia. Al punto di essere chiamato in causa forse perfino strumentalmente, da chi pensava di spendere il suo nome per conservare la propria influenza.

Era il sospetto di un mafioso di medio calibro, della provincia trapanese, che – intercettato da una delle migliaia di microspie che in questi anni hanno invaso la Sicilia nel tentativo di raccogliere una voce che potesse portare al superlatitante – diceva: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui ormai non c’è più qua…».

Di Matteo Messina Denaro rifugiato all’estero s’è parlato spesso: una volta in Spagna, un’altra in Albania o chissà in quale angolo della terra. Ma tutte le indagini, alla fine, ritornavano sempre in Sicilia, nel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante; lì c’erano e hanno germinato le radici mafiose di una famiglia che è sempre stata “nel cuore” di Totò Riina.

E alla fine l’hanno preso a Palermo. «Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi», dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Omettendo di aggiungere che aveva proseguito l’attività di “don” Ciccio Messina Denaro anche nel settore dei rapporti mafiosi.

Un anno dopo il padre lo fece partecipare agli omicidi di quattro uomini d’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, secondo le usanze del tempo. Ma secondo il racconto dei pentiti, Matteo aveva ucciso anche prima, quando era ancora «un ragazzino», addirittura minorenne. La contabilità ufficiale dei morti ammazzati coincide con almeno venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra i quali quello del bambino Giuseppe Di Matteo, sequestrato e ammazzato per vendetta e per dare l’esempio, dopo il pentimento del padre Santino, uno dei manovali della strage di Capaci; e quello di un vice-direttore d’albergo dove lavorava una ragazza austriaca di cui Matteo si era innamorato, e che si lamentava perché quel ragazzotto strafottente e i suoi amici frequentavano l’hotel mettendone a rischio il buon nome.

Il legame stretto dei Messina Denaro con Totò Riina lo confermò lo stesso Riina nei suoi colloqui con il compagno di detenzione, intercettati in carcere nel 2013: «Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanto anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio». Poi passò a parlare del figlio: «Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…». Finché non cominciò a pensare prima di tutto a sé, a investire per conto proprio, ad esempio nell’energia eolica, quasi dimenticando il destino dell’organizzazione, guadagnandosi per questo i rimbrotti di Riina: «A me dispiace dirlo, questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di…». È quasi una scomunica, quella del padrino corleonese, nei confronti del figlioccio affidatogli da «‘u zu Ciccio», che dopo il 1993 non decise di proseguire con la strategia delle bombe: «Se ci fosse stato qualcun altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, non hanno intenzione di continuare…». Si sentiva tradito, Totò Riina: «Una persona responsabile ce l’ho, e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo…. Io non so più niente… Potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero».

Invece era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato («il macellaio sono, mi aveva ordinato la fiorentina si ricorda? Domani alle 9,30 se la può venire a prendere») finché le indagini della polizia e della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel “fermo posta”.

Costringendo il latitante a inventarne uno nuovo per restare fuggitivo. Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d’origine (finita in galera quasi per intero), ma conservando – anche a distanza – quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia. Nel 1992 Riina l’aveva spedito a Roma per organizzare lì l’uccisione di Giovanni Falcone, prima di richiamarlo in Sicilia perché aveva optato per «cose più grosse quaggiù», cioè la bomba di Capaci.

Nel frattempo Messina Denaro s’era messo sulle tracce di Maurizio Costanzo, infiltrandosi pure tra il pubblico del teatro Parioli insieme all’altro mafioso stragista Giuseppe Graviano; un anno dopo Costanzo restò miracolosamente illeso nell’esplosione di via Fauro che avrebbe dovuto ucciderlo insieme alla moglie e all’autista. Ma catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo decise di aderire all’idea della «mafia sommersa» messa in pratica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro.

I pizzini recapitati a mano sono sempre stata la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non solo non aveva rapporti con lui ma nemmeno lo ha mai «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi. E’ il lato privato dello stragista che — hanno raccontato i pentiti — custodisce tanti segreti, a cominciare dall’ipotetico archivio segreto di Riina sfuggito ai carabinieri nella mancata perquisizione nel covo del boss di trent’anni fa. Sarebbe, se esistesse, un altro anello della catena che ha tenuto legato un padrino all’altro, nel lungo processo di transizione – generazionale e non solo – che s’è concluso con la cattura più agognata. E finalmente arrivata.

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