Teresa Principato: “Le mie indagini furono ostacolate, pensai non lo volessero prendere”

Giuseppe Legato La Stampa 21 gennaio 2023
Teresa Principato: “Le mie indagini furono ostacolate, pensai non lo volessero prendere”
L’ex procuratrice aggiunta di Palermo: «Non si è consegnato, ma ha abbassato la guardia. La pista di Leo Sutera e quella massonica erano buone, lasciai la città per la rabbia»

Il ricordo è sofferto, ma autentico. E oggi come allora è una bordata. Testuale: «Le indagini sulle ricerche di Matteo Messina denaro furono totalmente ostacolate. Ogni volta che si alzava il livello, ad esempio sulla massoneria, in molti, e fu per me una grossa delusione, non dico che avessero paura ma cominciavano a non crederci più (per esempio sui collaboratori che stavamo sentendo) nonostante in otto anni di lavoro alla Dda di prove sulla mia professionalità ne avessi seminate. E gli ostacoli furono frapposti nonostante gli scenari della cattura fossero molto promettenti. Sia io sia altri colleghi cercammo di convincere il procuratore a fermare i colleghi del gruppo agrigentino che volevano procedere all’arresto di un boss che secondo noi ci avrebbe portato dal ricercato. Avrebbero vanificato tutto. Anche i carabinieri del Ros ci parlarono. Invano».

Eccola qui Teresa Principato, magistrato in pensione dal gennaio 2022. È la donna che più di tanti altri in passato ha dato la caccia a Messina Denaro divenendo – ob torto collo – la biografa (investigativa) della sua latitanza. Nove anni di lavoro su piste estere e italiane cadute sul più bello, al miglio decisivo, sul più grande fantasma degli ultimi 20 anni. L’addio alla procura di Palermo nel 2018 e il passaggio alla direzione nazionale antimafia per quattro anni, sono l’appendice di una vita in magistratura.

Dottoressa, lasciò volontariamente la procura di Palermo?
«Considerato l’atteggiamento tenuto nei miei confronti da alcuni colleghi e responsabili dell’ufficio giudiziario dell’epoca me ne andai via, insalutata ospite. Non ritenevo ci fossero più le condizioni per rimanere».

Con quale stato d’animo se ne andò da Palermo?
«Mi costò molto. Ero arrabbiata, delusa. Tanto da pensare che non ci fosse la reale volontà di catturare il latitante. Lo credevano anche altri miei colleghi e diversi investigatori».

Ma di che storia sta parlando?
«Della storia di un’indagine stoppata della quale ho cercato anche di dimenticare alcuni particolari».

Ce li racconti e – se ritiene – ometta il meno possibile.
«Seguivamo un capomafia, Leo Sutera. Appena uscito dal carcere incontrò Messina Denaro. Aveva anche il compito di farlo incontrare con due mafiosi palermitani. Fotografammo Sutera in un casolare mentre da sotto una pietra estraeva un pizzino del latitante. Lo lesse e lo rimise al suo posto».

Sutera si accorse di qualcosa?
«No, quell’indagine fu molto costosa e fu la prima volta che utilizzammo i droni in Italia in un’indagine antimafia. Eravamo tutti certi che ci avrebbe potuto portare da Messina Denaro».

E invece?
«Invece i colleghi che investigavano sul territorio agrigentino volevano arrestarlo in un’altra operazione, ma cosi ci avrebbero bruciato».

Logica vorrebbe…
«Che l’esecuzione di quelle misure cautelari venissero ritardate. Ne parlai col procuratore capo di allora (Francesco Messineo, ndr).

Cosa le disse il vertice dell’ufficio?
«Mi chiese se fossi certa, del contenuto delle intercettazioni consegnatemi dal Ros. Confermai, ma non si convinse e successe un’altra cosa strana».

Quale?
«Seppi che poco dopo, in quei giorni, si recò in aula bunker dove venivano effettuate le intercettazioni sulle ricerche del boss. Chiese a un ufficiale di sapere se ve ne fossero di interesse».

Insolito?
«Abbastanza».

Parlò coi colleghi della vicenda?
«Lo dissi direttamente al procuratore capo cercando di dimostrare che più stringente della cattura degli agrigentini era il fermo del latitante».

Cosa le risposero?
«Mi disse: ce la fai a prendere Messina Denaro in una settimana? Sennò li arrestiamo tutti perché la popolazione non può continuare a subire questo gruppo mafioso e senza Sutera non ha senso, l’operazione perde efficacia».

Un grado di urgenza giustificato secondo lei?
«Ma si figuri. Il mio giudizio non poteva che essere diverso, per me era preminente la cattura del latitante. Tolto Sutera, peraltro, erano personaggi di relativa importanza. Tra parentesi poi il gip non convalidò nemmeno alcuni di quegli arresti».

Lei portò la vicenda al Csm…
«E fui sentita dal Consiglio».

Cosa disse?
«Tutto quello che era successo, ma non ricordo se la pratica aperta abbia sortito alcun risultato».

Le arrestano l’unico uomo che poteva portarla a Messina Denaro…
«Non solo».

Cos’altro?
«Poco tempo dopo arrestarono anche i due mafiosi palermitani che dovevano essere condotti dal latitante».

Cosa pensò? Ce lo dica con franchezza.
«Pensai che l’indagine fosse stata totalmente ostacolata, che la cattura non fosse ritenuta prevalente e che sarebbe stato impossibile ricominciare daccapo».

E invece?
«Ripartimmo con enorme fatica dalla massoneria».

Dove la portò la pista dei notabili?

«Ovunque, e poi tenga conto che Trapani ha il record di logge coperte e non…».

Esito finale?
«L’inchiesta condusse ad evidenze di logge cui erano iscritti questori, medici poliziotti. Indagammo col Gico ma non fu facile nemmeno stavolta».

Cosa complicò il lavoro?
«Si sollevavano dei dubbi sul collaboratore che ci stava portando dentro quelle storie, che ritenni fondate in generale, ma non sulla pista massonica di cui lui faceva parte. Mi ritrovai in una riunione senza nemmeno il consenso dei colleghi. Completamente sola e, inascoltata ospite, decisi di andare via in anticipo».

Nei giorni scorsi Leo Sutera, l’uomo che le hanno arrestato a un passo da Messina Denaro, è stato condannato in Cassazione…
«Una magra consolazione direi».

E Messina Denaro è stato preso…
«Non credo si sia consegnato. Certo – senza nulla togliere al lavoro di alcuni – era stanco, aveva abbassato le difese. Lei se lo vede uno che per prudenza non incontra mai la figlia per 20 anni mettersi in coda per fare un tampone?».

Se la mette così non direi…
«E poi aveva forti rapporti politici. Pensi alla storia di D’Alì (ex sottosegretario agli interni forzista, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa anche per aver favorito la famiglia del latitante, ndr)».

Ebbene?
«Il padre di Messina Denaro era il campiere della famiglia del politico. D’Alì ha fatto assumere in una delle sue banche il fratello dell’ex latitante e un Prefetto che voleva togliere dalle grinfie della mafia un’azienda fu fatto trasferire sempre da lui, cosi come il capo della squadra Mobile Giuseppe Linares».

E questo cosa le fece capire?
«Mi fece riflettere sulla possibilità della mancata realizzazione di altre indagini sulla cattura che in quegli anni andarono a monte».

 

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