Massimo Troisi, Lello Arena: «Ora tutti lo celebrano ma ha avuto tante porte in faccia»

Natascia Festa Corriere della Sera 19 febbraio 2023
Massimo Troisi, Lello Arena: «Ora tutti lo celebrano ma ha avuto tante porte in faccia»
L’attore con lui e Decaro fondò La Smorfia: «All’inizio di lui dicevano: ma dove crede di andare? Non si capisce una parola di quello che dice. Ficarra e Picone mi hanno anticipato l’ipotesi che il David di Donatello dello spettatore sia intitolato a lui»

Lello Arena, Massimo Troisi non lo capivano per il dialetto?
«No no, mica per quello. Non lo capivano per quel suo modo di parlare così unico che oggi tutti osannano. Adesso è facile. Potrei fare nomi e cognomi di chi ora lo onora — e magari dice pure di averlo sostenuto dall’inizio — e un tempo non lo riceveva neppure. Ma non li farò».

(E pensare che nemmeno ci voleva andare a San Giorgio a Cremano quando dodicenne i genitori gli imposero il trasferimento da Napoli per motivi di lavoro. E invece quello spostamento controvoglia dal centro alla periferia avrebbe cambiato la vita di Arena).

L’attore con lui e Decaro fondò La Smorfia: «All’inizio di lui dicevano: ma dove crede di andare? Non si capisce una parola di quello che dice. Ficarra e Picone mi hanno anticipato l’ipotesi che il David di Donatello dello spettatore sia intitolato a lui»

«Me le ricordo le porte in faccia, Massimo ne ha prese tantissime. Oggi è tutto un celebrare la sua genialità… ma all’inizio non lo hanno capito. Ricordo perfettamente i commenti da parte della cosiddetta classe dirigente del mondo dello spettacolo: “Ma chi è questo Troisi, ma che dice? Non si capisce una parola, che vuole fare? Dove vi avviate? Insomma non gli srotolavano tappeti purpurei! Noi non ci siamo mai fatti scoraggiare ma le porte in faccia facevano male lo stesso».

E ora che tutti parlano di Troisi — con cui fondò prima gli Rh-Negativo, poi I Saraceni e infine La Smorfia, iconico trio da cui tutto nacque, Arena si dedica ai giovani di Cioè, l’Academy nata da una sua idea e sviluppata con il Comune di Napoli ed Enzo Decaro.
«Ci hanno chiesto e accorderemo una proroga rispetto alla data simbolica che avevamo scelto ovvero il 19 febbraio. Cominciamo a fare i provini ma abbiamo già doppiato il migliaio di richieste iniziali quindi servirà più tempo. Di questo successo siamo felicissimi perché abbiamo bisogno di futuro. E non lo facciamo per generosità ma per egoismo: è necessario che l’arte si perpetui. La nostra vita sarebbe buia senza».

Eppure, in tutto questo celebrare — mai un settantesimo compleanno post mortem ha visto una tale mobilitazione di forze creative, intellettuali e istituzionali — qualcosa va detta.
«È molto bello che ci sia questa “voglia di Massimo” e che ognuno la esprima con le sue competenze e talenti. Però bisogna stare molto attenti che tutto ciò abbia a che fare con la sua persona. I settanta di Troisi sarebbero stati importantissimi se lui fosse stato nella condizione di compierli veramente. Oggi è una festa postuma piena di presenze illustri: la Federico II grazie a Enzo (Decaro ndr) gli conferirà lunedì la laurea honoris causa e i miei amici Ficarra e Picone mi hanno anticipato che c’è l’ipotesi che il David di Donatello cosiddetto dello spettatore sarà intitolato a lui. Tutto ciò è fonte di grandissima gioia, ma per me che questa storia l’ho vissuta e raccontata in un libro (C’era una volta, Rizzoli ndr) è il tempo di mettermi da parte e lasciare che altri la reinventino. Per mio alto privilegio la sua è una parabola in cui sono molto presente, ho condiviso quella leggenda che oggi stiamo festeggiando. Standoci fin troppo dentro è chiaro che debba muovermi in punta di piedi: essere parte della festa che lo riporta sugli schermi e sui palchi, ma restare al margine. Del resto egli stesso era molto riservato, intimo, privato. Quello che potevo fare per Massimo e con Massimo l’ho già fatto prima».
E c’è qualcosa che non rifarebbe?
«Non ho rimorsi ma rimpianti: il rimorso è qualcosa che insorge quando hai fatto del male volontario a una persona e non puoi più far nulla per riparare. I rimpianti ci accompagnano per tutta la vita: ci sono cose che non farei, ma nel bilancio vengo confortato da tutte le cose belle che siamo riusciti a fare insieme. Quello che cambierei è poca cosa rispetto a ciò che non cambierei mai per tutta la mia vita. Il problema è che Massimo non ci sta più: se ci fosse ancora, prenderei il telefono e potrei fare di meglio di quello che ho fatto. Ma lui non c’è e la sua assenza cristallizza le cose fatte e quelle che si potevano fare in maniera diversa. In conclusione: rimpianti tantissimi, rimorsi zero e cose belle a migliaia. E questo mi rende contento».

C’è una certa immanenza di Massimo Troisi. Senza fare dello spiritualismo, con Decaro avete detto che anche se in due restate un trio.
«C’è, c’è… se Massimo non ci fosse — parlo al presente — la mia vita sarebbe diversa. Lui è la mia spinta, la mia intransigenza: mi ha insegnato cose fondamentali che agiscono dentro di me. È difficile pensarlo come “non esistente”. Spesso mi sforzo di immaginare cosa avrebbe fatto in certe situazioni… In questi giorni di festa spesso abbiamo dovuto fronteggiare ipotesi di cose “fatte male” e lui non le avrebbe mai consentite. Massimo ci ha cambiato il dna, non siamo uguali a chi non lo ha mai incontrato. E questo vale per noi che gli siamo stati al fianco ma anche per chi ha lo scelto come fonte di ispirazione. Ficarra e Picone continuano a dirmi che se non ci fosse stata La Smorfia loro non ci avrebbero nemmeno provato a fare teatro. Quando Massimo è morto decisi che il mio compito sarebbe stato quello di tenere viva la sua memoria, ma anche in questo è stato molto più bravo di noi, non ha avuto bisogno di nessun aiuto. Giovani dell’età di mio figlio che ha 19 anni si riuniscono nelle case per rivedere i suoi film. Se tra tutti gli occhi che incrocerò durante i provini dovessi intravedere uno sguardo come quello di Massimo sarò molto più contento».
Per i campani della generazione-Troisi, ovvero quella del terremoto dell’Ottanta, due sono le date su cui ci si confronta nelle serata tra amici: dov’eri quando è venuto il sisma e dov’eri quando è morto Troisi. Lei dov’era?
«Eh… Ero al Villaggio Olimpico pieno palloncini colorati e musica perché mia figlia stava facendo il saggio di ginnastica artistica: ero immerso in un’atmosfera di bellezza ed esuberanza della vita. In quella gioia arrivò una telefonata terrificante che mi annunciava la tragedia».

Chi l’avvisò?
«Gaetano Daniele… sì credo fosse lui. È un ricordo atroce. Ancora oggi faccio i conti con il fatto che non uscirà il prossimo film di Massimo perché la sola idea che si vivesse aspettando un suo nuovo lavoro, in tv, a teatro al cinema, era confortante. Questo mi manca molto, è una cattiveria insopportabile».

La sua presenza di artista era incoraggiante per chi non aveva niente: aveva destrutturato tutte le convenzioni arrivando a No Stop senza scenografia, con lei e Decaro e quattro pannetti come costumi.
«Era una speranza per tutti quelli come noi che ci siamo sempre sentiti fuori posto, incapaci, a disagio, fuori gioco perché non capivamo come funzionava il meccanismo del mondo dello spettacolo. Il messaggio che arrivò era: non dovete preoccuparvi di sentirvi “fuori luogo”, cercate piuttosto di capire che cosa siete veramente: il resto devono farlo gli altri, non dovete vendergli voi la merce. E questo messaggio fu passato con una cifra unica. Massimo poteva dire quello che voleva senza sembrare blasfemo».

Tipo?
«Tipo come parlava dei santi: sono certo che se San Francesco lo avesse sentito avrebbe applaudito pure lui, consapevole di aver esagerato con quel suo dono di parlare agli uccelli (ride ndr): e San France’ basta mo! Così come per Giuda e la tortura: “Io parlo subito anche se mi dicono: guarda che forse ti torturiamo io già parlo. E se non capiscono gli faccio anche un disegnino”. E potremmo fare migliaia di esempi in cui Massimo aveva il coraggio di parlare delle nostre debolezze umane: perché noi siamo così».

Eravate sghembi e imperfetti e questo abbiamo amato in voi. Oggi ai giovani si chiede di essere performativi e fotogenici a favore dei social.
«Non solo: sta passando il messaggio per cui si esibisce una qualche diversità per la quale si chiede dignità e tolleranza. Il messaggio di Massimo era un altro: io sono come tutti, imperfetto come tutti e perciò mi dovete accogliere non accettare che è un’altra cosa. La diversità non entrava nel novero delle possibilità attribuibili ad un essere umano: per questo era meraviglioso».

Tanto da aver già fatto tutto da solo girando, forse come un esorcismo, «Morto Troisi. Viva Troisi». È così?
«Anche lì io e Anna Pavignano c’eravamo, era più un gioco direi. fatto per tirare dentro anche Renzo (Arbore ndr) e Roberto (Benigni ndr), Michetti e Verdone e parlare di sé come se non ci fosse più. Io l’avevo già fatto in Effetto Smorfia e ogni tanto lo tiravamo dentro, nei nostri spettacoli. Forse quando morirò io, andranno a prendere quel pezzo e diranno: vedi? Anche Lello ci aveva già pensato. Ora sono in tournée con Aspettando Godot che narra l’attesa della fine. La verità è che noi giocavamo con tutto e l’abbiamo fatto anche con la morte».

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