Pd stampella atlantista della Meloni. Preoccupazioni a Repubblica

Stefano Folli La Repubblica 27 febbraio 2023
Per il nuovo Pd il nodo Ucraina
La vittoria di Elly Schlein cambia la storia del Pd e forse del centrosinistra. È un successo privo di analogie nella storia della sinistra e quindi è naturale che susciti interrogativi di varia natura che questo giornale intende porre puntualmente.

Fra i tanti, e non fra i minori, c’è la politica estera.
Che oggi vuol dire soprattutto atteggiamento verso la guerra in Ucraina: come dire verso l’Alleanza Atlantica e le sue strategie. Fino a ieri sul tema le risposte della vice presidente dell’Emilia Romagna erano vaghe ed evasive.

Erano le risposte di chi non vuole impegnarsi in una precisa direzione di marcia e si tiene aperta qualche via d’uscita.

Sappiamo che Enrico Letta è stato fermo e coerente nel sostegno a Kiev. Non ha mai annacquato la posizione del Pd, nonostante gli slittamenti di un discreto segmento della sinistra sensibile agli argomenti del cosiddetto “pacifismo”. In particolare l’ormai ex segretario ha rintuzzato l’offensiva dei Cinque Stelle di Conte, che non hanno esitato a far leva sui dubbi e le inquietudini dell’opinione pubblica al fine di raccogliere un po’ di voti supplementari e mettere i bastoni tra le ruote del partito democratico.

Diciamo che Letta ha tenuto la stessa linea che era stata di Mario Draghi: atlantismo senza esasperazioni, ma fondato sulla lealtà indispensabile in una comunità i cui caratteri sono da sempre sia politica sia militari.

Non sembra che tale posizione sia stata condivisa nel corso delle primarie per quanto riguarda la crisi internazionale. In particolare Elly Schlein è apparsa più vicina a Conte, si potrebbe dire, che a Draghi. Niente di drammatico. In una campagna elettorale, come gli Stati Uniti insegnano, i candidati sono spesso elusivi ed evitano di prendere posizioni troppo nette per tenersi le mani libere. Sotto questo aspetto, la Schlein è molto americana per stile oltre che per origini familiari. Tuttavia la politica estera è affare troppo serio per confonderlo con i tatticismi elettorali. Cosa farà la giovane vincitrice?

Confermerà gli impegni che qualsiasi governo, di destra o di sinistra, è tenuto a onorare per non spingere l’Italia ai margini del sistema di alleanze? Ovvero guarderà alle questioni di cabotaggio domestico, cioè la rivalità con i 5S volta a stabilire una mini-egemonia nel recinto del centrosinistra o ad accettare un appeasement ?

Sono domande per ora senza risposta e certo il giorno della vittoria non è il più adatto per avanzare quesiti scomodi. Tuttavia la questione è centrale nell’immagine della neo dirigente del Pd. Fingere che abbia poca importanza significa farsi risucchiare in un modo o nell’altro nella sfera d’influenza di Conte, un personaggio abile e abbastanza spregiudicato da giocare con il dovuto cinismo tutte le carte del mazzo a sua disposizione (forse anche a dare una mano nell’urna alla candidata più amica).

Finora Letta era riuscito a impedire che fosse la sola Giorgia Meloni beneficiaria delle divisioni a sinistra in un campo — la politica estera in uno scenario di guerra, quindi di grave crisi — che tradizionalmente vede una qualche forma di convergenza parlamentare tra maggioranza e opposizione.

Logica vorrebbe che si trattasse del sentiero obbligato anche per il radicalismo massimalista della vincitrice, peraltro consigliata dietro le quinte da alcuni personaggi del vecchio Pci/Pds che hanno una certa dimestichezza con il gioco politico.

Se invece prevalessero spinte ancora più radicali, unite al desiderio di battere strade innovative e tentare una rapida conciliazione con i 5S, allora lo scenario non sarebbe prevedibile. Il rischio è di regalare alla leader del centrodestra la posizione “atlantica” di fedeltà alle alleanze: alla luce non solo dell’Ucraina, ma anche degli altri scenari turbolenti che s’intravedono. A cominciare dalla Cina, su cui scriveva ieri il direttore di questo giornale.

 

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