Una pax romana per mettere fine alla guerra infinita

Massimo Cacciari La Stampa 6 marzo 2023
Una pax romana per mettere fine alla guerra infinita
Che cosa collega l’ennesima tragedia del naufragio del barcone di migranti (tra parentesi, solo il 14% sbarca da noi con simili “mezzi”) con la guerra in Ucraina? Entrambe annunciate ed entrambe triste testimonianza dell’impotenza dell’Europa ad affrontare crisi globali.

La politica dell’Unione ha permesso ai popoli dell’Europa occidentale il più lungo periodo di pace e per alcuni decenni anche di prosperità di tutta la loro storia, ma non ha saputo diventare protagonista di nuovi assetti, equilibri, foedera tra i grandi spazi imperiali in cui si divide il nostro mondo.

Ha seguito ciecamente le speranze e le mire di una egemonia americana sui processi di globalizzazione dopo lo sfracello dell’URSS, se non addirittura i deliri sulla “fine della storia”. Non ha saputo, come sarebbe stato del tutto possibile, dar vita a grandi piani di cooperazione con i Paesi del Medioriente, del Maghreb, dell’Africa, da cui provengono e continueranno a provenire, che vi siano o non vi siano guerre e carestie, flussi migratori dovuti a drammatici squilibri economici e demografici.

Le sciagure destano qualche lacrima magari sincera, ma non insegnano nulla. Come nulla ha insegnato la catastrofe balcanica seguita al crollo della Jugoslavia.

È inevitabile che in tempi di guerra la propaganda unilaterale prevalga sulla ricerca delle ragioni del conflitto, così come in “stati di eccezione” il potere si concentri nelle mani dell’“esecutivo”. Non si ragiona di politica se non si ragiona realisticamente. Suprema legge è soltanto la salvezza, ovvero la vittoria, della patria? Senza chiedersi a quale prezzo e quali conseguenze prevediamo sul piano dei rapporti tra Stati una volta che essa sia stata conseguita?

La “guerra fredda” si concluse con una schiacciante affermazione degli Stati Uniti, ma senza alcun trattato o conferenza di pace. Con Gorbaciov prima, e Eltsin in modo clamoroso subito dopo, il Nemico aveva dichiarato la sua incondizionata resa senza richiedere né contropartite né serie garanzie. L’aggregazione dei Paesi del disciolto Patto di Varsavia alla Nato poteva così immediatamente avere inizio. In politica internazionale, da sempre, un vuoto di potere viene colmato.

Era nei logici interessi degli USA perseguire una politica mirante a rendere inconcepibile in futuro il riemergere della Russia come potenza imperiale. Sistemare definitivamente questo fronte per potersi concentrare sulla nuova e decisiva sfida con la Cina comportava e comporta non solo, come è ovvio, impedire che la Russia ostacoli ulteriori allargamenti della Nato o cerchi di destabilizzare quei governi dell’Est che l’alleanza occidentale ha già acquisito, ma anche lavorare con ogni mezzo perché l’attuale Federazione Russa, minata al suo interno da secolari “guerre civili” tra diverse etnie, possa ulteriormente disgregarsi.

La Federazione Russa, infatti, è ancora troppo vasta, troppo forte per non essere portata a svolgere una politica su scala mondiale e per ciò stesso in competizione con gli USA. Putin ha incarnato questo pericolo. La “qualità” della leadership russa, delle sue oligarchie, della corruzione che vi domina, non basta a eliminarlo. Forse sarebbe bastato con gli Eltsin – ma neppure, poiché un grande Paese è in qualche modo destinato a svolgere politiche imperiali, che trascendono anche la volontà dei suoi governi. Dopo la Prima Grande Guerra l’imperial-regio impero austro-ungarico, la Kakania di Musil, si ridusse all’Austria attuale. Potrà ridursi a qualcosa di simile intorno a Mosca quello che fu l’Impero degli Zar e dell’URSS?

È evidente che se apertis verbis si dichiarasse un simile obbiettivo, questo renderebbe inevitabile uno scontro diretto, dalle conseguenze imprevedibili. Ma un’operazione di logoramento progressivo può raggiungere lo stesso scopo. Anche perché il Nemico, in condizioni di manifesta inferiorità, sarà portato a rispondere in modo sempre più inconsulto e occasionale, ciò che ne accrescerà l’isolamento internazionale.

La sua occasione storica, dopo l’89, la Russia l’ha perduta: lanciare con tutti i leader europei che potevano condividerne l’idea una grande strategia euro-asiatica. Quella prospettiva, ammesso vi fosse, è perduta per sempre. Avrebbe forse anche potuto muovere l’opinione pubblica mondiale sul problema dell’allargamento della Nato (operazione Anaconda) e dei territori russofoni di Crimea e del Donbass. Ma ci sarebbero voluti ben altri leader dei Putin e dei suoi. Costoro si sono condannati decidendo l’invasione. Fossero intervenuti in modo mirato nel Donbass avrebbero sempre potuto chiedere, almeno a noi italiani: che direste se i sud-tirolesi si fossero ribellati in armi ai fascisti? E agli europei: ma non avete sempre applaudito agli interventi “liberatori”? non avete occupato Paesi sovrani per riedificarli in virtuose democrazie?

In tali condizioni – nessuna credibilità da parte russa, strategia americana volta a “risolvere” definitivamente la competizione con la Russia, nullità politica europea – la probabilità che il massacro continui è molto alta. Ma è il mondo tutto a essere entrato in una specie di guerra infinita. Cessano le battaglie, rimane la guerra, pugna cessat, bellum manet.

Per una pace che non sia soltanto armistizio occorrono patti scritti, occorre un riequilibrio tra le potenze sancito da trattati, occorrono autorità sovranazionali riconosciute positivamente da tutti gli Stati in grado di colpire i trasgressori. Ma da questo bellum, o piuttosto guerra civile, è sempre possibile uscire anche per un’altra via, quella dell’impero di uno solo, dopo la catastrofe. È la pax romana, quella che nasce a Azio, non dalla federazione tra popoli. Infinite cause decideranno per quale strada ci incammineremo. La storia la facciamo noi, ma quasi mai sappiamo quale sia.

 

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