Giuseppe Legato La Stampa 17 gennaio 2023
Dall’agenda di Borsellino all’archivio di Riina: i segreti di Matteo Messina Denaro
Il covo del capo dei Corleonesi venne perquisito giorni dopo. Le rivelazioni di un pentito: «Ha lui le carte portate via di lì»
Èil 6 giugno del 2012, processo Borsellino Quater. L’avvocato di parte civile della famiglia del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, Fabio Repici, chiede al collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, ex membro della Cupola di Cosa Nostra già a capo del mandamento di Caccamo, ritenuto tra i più attendibili pentiti da plurime declaratorie di credibilità firmate dai giudici, se Matteo Messina Denaro, sia entrato, in qualche modo, in possesso di qualcosa. Non specifica, non suggerisce, non “imbocca”, si dice nelle aule di giustizia. La replica è in estrema sintesi questa: «Lui ha i documenti che sono stati portati via dal covo di via Bernini dopo l’arresto diTotò Riina». Altri aggiungeranno: «È cresciuto sulle sue ginocchia». Ancora Giuffrè: «È una creatura di Riina e aveva molti appoggi a Roma».
Conosce i segreti di quelle carte, rimaste, si dice, per 18 giorni nella cassaforte di via Bernini a Palermo quando 30 anni fa il capo dei Corleonesi finiva in manette e il covo non veniva perquisito disegnando una delle pagine più buie, ancora oggi, della storia investigativa italiana al netto dello storico arresto del capo dei Capi. Di quella miniera potenziale di informazioni in grado di riscrivere la storia di un momento complicatissimo del Paese in cui mafia e (pezzi di) Stato si parlarono, ha raccontato anche Giovanni Brusca, pure lui capo, anche lui fedelissimo del boss sanguinario: «Riina era maniacale nel mettere insieme e conservare tutti i documenti, prendeva appunti anche alle riunioni e li metteva da parte. Ordinò lui di fare sparire tutto». L’imprenditore che si occupò addirittura di ritinteggiare indisturbato le pareti di casa, disse intercettato: «Per fortuna abbiamo salvato il salvabile». E anche Riina stesso non si dava pace per quanto avvenuto: «Io non capisco perché non sono venuti a fare la perquisizione» diceva intercettato nel carcere di Opera durante l’ora d’aria.
Ci sono poi gli attentati del 1993 a Firenze, Roma e Milano inseriti nella più ampia cornice di interlocuzioni avvenute tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato, di cui Messina Denaro è stato assoluto protagonista (e condannato all’ergastolo), le stragi di Capaci e via D’Amelio dell’anno precedente, le eredità di rapporti e contiguità politico-istituzionali tenute prima da Riina e poi da lui.
Con un’arma che ricorre a ragion di logica: quella del potenziale ricatto, dell’estorsione, della minaccia. E forse si spiega anche così, (sennò come?) la capacità di sottrarsi per decenni a mandati di cattura e carcerazioni irrevocabili prodotte proprio dallo Stato che pure la caccia gliela ha data profondendo tutte le forze sane – tantissime – degli apparati investigativi. Carte, misteri, segreti branditi – forse – come katane. Fino a quando non si sa.
E quell’agenda rossa di Borsellino, mai ritrovata ma portata via dal luogo della strage in una borsa marrone, che oltreché nelle mani di qualche servitore infedele dello Stato potrebbe essere anche dell’ex primula “nera”. Lo ha raccontato Salvatore Baiardo un anno fa a Report. Questo signore è stato a lungo prestanome e custode della latitanza dei fratelli Graviano, che insieme a Messina Denaro rispondono degli “attentati continentali” del 1993. Va detto che da qualificate fonti investigative e di procura è considerato un teste non attendibile. Baiardo dixit: «Ci sono più copie di quell’agenda, una ce l’ha lui».
Magari non è questo il caso, ma le sue roboanti previsioni tanto simili a profezie, hanno trovato riscontro ultimamente se è vero com’è vero che quattro mesi rivelava a La7, “Non è l’Arena” di Massimo Giletti, uno scenario – all’epoca obiettivamente fantasmagorico – che voleva un prossimo «arresto di Matteo Messina Denaro, gravemente malato come simbolo nel trentennale della cattura di Riina». Di quest’ultimo e dei suoi segreti soprattutto non militari, Messina Denaro è sicuramente un custode. E rafforza l’assunto la rivendicazione di paternità mafiosa, fatta dall’ex sanguinario capo dei Corleonesi poco prima di morire: «Questo figlio lo ha dato a me suo padre per farci quello che ne dovevo fare. È stato qualche quattro o cinque anni con me. Impara bene, minchia, e poi tutto in una volta…».
Poi, tutto in una volta si è fatto vento consegnando altri misteri a una vita da fantasma indisturbato in Sicilia, come tutti i grandi boss: latitante a casa sua.