La sfida calcolata di Biden a Putin

Massimo Gaggi Corriere della Sera 21 febbraio 2023
L’esempio di Biden
Il vecchio leader dell’era della Guerra fredda ha capito che è ora di esporsi ancora di più in prima persona

 

Cuore, rischio calcolato, ambizione. Sono questi i tre elementi che hanno spinto Joe Biden fino a Kiev (senza soldati Usa a proteggerlo e senza avere il controllo dei cieli) per mostrare tutta la determinazione americana a sostenere l’Ucraina: una missione che diventa simbolo di una battaglia di libertà combattuta, per ora senza grosse defezioni, da tutto l’Occidente. Col presidente americano che sfida Putin notificando il suo viaggio nella città bersagliata dai missili del Cremlino al leader che in passato ha definito «killer senz’anima»: due uomini dell’era della Guerra fredda che si detestano, ma si capiscono.

Per Biden l’Ucraina è qualcosa più di un Paese ingiustamente aggredito da difendere sulla base dei principi etici e giuridici universali della Carta dell’Onu e del diritto internazionale. Kiev è per lui il luogo del cuore e lo ha detto chiaramente ieri arrivando a sorpresa in questa capitale martoriata. Non sono parole di circostanza: agli occhi di un leader che ha dedicato gran parte della sua vita politica al rafforzamento dei rapporti transatlantici l’Ucraina è la frontiera della civiltà occidentale da difendere a tutti i costi per contenere il neoimperialismo russo. E lo è non da oggi ma dal 2014, quando Biden, allora vice di Barack Obama, chiese al presidente di «far pagare cara ai russi col sangue e col denaro» quell’invasione.

Obama, allora, non volle rischiare uno scontro diretto. Toccò, così, a Biden andare a Kiev per salvare il salvabile: riorganizzare il governo ucraino, aiutarlo a dotarsi di un esercito moderno e ben addestrato, tentare di compensare con la tecnologia l’inferiorità economica e demografica rispetto all’aggressore russo. Come ha ricordato lui stesso ieri, da allora Biden ha preso a cuore quella causa: sei missioni in Ucraina da vicepresidente, l’ultima alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, e una successivamente.

Il contenimento dell’invasione e i contrattacchi ucraini sono stati celebrati come la prova di coraggio di un intero popolo, ma sono anche il frutto di questo lavoro svolto per anni dietro le quinte. Con la guerra Biden è dovuto, però, salire sul palcoscenico: impegnato da un lato a mantenere compatto il fronte politico interno e, all’esterno, a rivitalizzare la Nato. Ma anche attento, nel sostegno all’Ucraina, a non varcare linee rosse che potrebbero fornire a un Putin in grande difficoltà un alibi per allargare il conflitto in modo drammatico.

Fin qui il presidente americano è riuscito nell’impresa, che a Putin sembrava impossibile, di tenere unita l’Europa nonostante i sacrifici imposti da una crisi energetica diventata anche crisi economica. Ed è anche riuscito, negli Usa, a limitare il dissenso a una falange fin qui ristretta di trumpiani filoputiniani.

Gli incontri di questi giorni degli alleati in Polonia e a Kiev non sono però la celebrazione di una vittoria: sono la presa d’atto che, evitato il peggio, ora si apre una nuova fase, se possibile ancor più difficile, tra nuove offensive russe e il rischio che la Cina cominci a sostenere il Cremlino anche militarmente.

Per questo il vecchio leader dell’era della Guerra fredda capisce che è ora di esporsi ancora di più in prima persona, se vuole che gli altri lo seguano. Bisogna mostrarsi ancor più determinati per fronteggiare una minaccia che, inutile nasconderselo, va ben oltre Mosca: sono tanti i Paesi, dall’Asia all’Africa, che dimostrano scarsa sensibilità per i diritti civili e rifiutano i vincoli degli embarghi.

È importante che al coraggio di Biden faccia riscontro quello dell’Europa, dove l’Italia è inevitabilmente un osservato speciale: l’impegno di Giorgia Meloni a fianco dell’Occidente è fuori discussione, ma ci si chiede fino a che punto la leader di Fratelli d’Italia riuscirà a tenere unito un governo nel quale sono evidenti gli umori filoputiniani di Silvio Berlusconi mentre anche Matteo Salvini non risparmia i distinguo sull’impegno dell’Europa a fianco di Zelensky.

Biden può capire la Meloni meglio di altri perché anche lui deve vedersela con un dissenso interno che non tocca il suo partito, ma che, dopo le elezioni di mid term del novembre scorso, investe una parte sempre più estesa di quello repubblicano che ormai, avendo conquistato il controllo della Camera dei Rappresentanti, ha un potere di veto sull’attività legislativa.

È qui, oltre che nella delicata partita a scacchi col Cremlino — armare sempre di più gli ucraini senza che il conflitto divenga una «guerra per procura» dell’Occidente, come Mosca cerca di farla apparire —, che Biden combatte la sua battaglia forse più difficile: mantenere ciò che rimane del vecchio partito repubblicano, tradizionalmente favorevole a un forte ruolo internazionale degli Usa, dalla parte della coalizione occidentale, isolando l’ala trumpiana.

Un compito difficile ma che esalta le doti politiche di Biden e, in un certo senso, alimenta le sue ambizioni per un secondo mandato presidenziale: lo pone davanti all’opinione pubblica americana come l’unico leader in grado di affrontare con competenza e credibilità sfide così difficili. Un leader che ieri al sole di Kiev, col soprabito e i classici occhiali aviator, cercava di mostrarsi addirittura ringiovanito, sorridente mentre risuonavano le sirene dell’allarme aereo.

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