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I dubbi di Kissinger sulla tenuta dei prossimi 10 mesi di guerra
Federico Fubini Corriere della Sera 06 luglio 2022
I messaggi di Kissinger all’Ucraina.
Quando negoziare la tregua? Dieci mesi decisivi per Putin
Per due volte Henry Kissinger ha detto qualcosa che è parso fuori asse rispetto alla linea del G7 sull’Ucraina. Più di un mese fa a Davos l’ex segretario di Stato americano, ormai quasi centenario, ha osservato che i negoziati di pace dovevano iniziare entro fine luglio «prima che si creino sollevazioni e tensioni che potrebbero non essere superabili».
Kissinger ha poi aggiunto una frase che sembra un invito a Kiev a rinunciare alla Crimea e alle pseudo-repubbliche di Donetsk e Lugansk: «Idealmente la situazione dovrebbe tornare allo status quo ante (il 24 febbraio, ndr). Credo che perseguire la guerra oltre quel punto la trasformerebbe in una guerra non per la libertà dell’Ucraina, ma contro la Russia». Gerry Kasparov, il grande oppositore russo, ha risposto che quell’idea si è già dimostrata sbagliata: concedere territori al Cremlino «non è sostenibile, perché alla lunga i dittatori hanno bisogno del conflitto». E davvero avergli lasciato la Crimea nel 2014 non ha fatto che acuire la sete di aggressione di Vladimir Putin.
Eppure Kissinger la settimana scorsa è tornato sul tema con Luigi Ippolito del Corriere. Va sconfitta l’invasione dell’Ucraina, ha detto, «non la Russia come Stato» e si deve «tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo». E ha proseguito: «Stiamo arrivando a un momento in cui bisogna affrontare la questione della fine della guerra in termini di obiettivi politici altrettanto che militari. Non si può semplicemente continuare a combattere senza un obiettivo».
Che voleva dire Kissinger?
Senza dubbio vede anche lui le difficoltà nella quale si trova ormai l’Ucraina nello scontro. L’esercito russo è tornato alla tattica zarista di fare terra bruciata con l’artiglieria e solo dopo avanzare con la fanteria; il Lugansk è espugnato e ora sta penetrando profondamente nel Donetsk. È possibile che gli ucraini tentino una controffensiva a Sud con i lanciarazzi arrivati dagli Stati Uniti. Intanto però le missioni aree russe, fra quaranta e cinquanta al giorno, distruggono quantità notevoli di armi fornite dagli occidentali e infliggono perdite all’esercito di Kiev: secondo alcune stime, fino al 40% dei soldati ucraini sarebbero morti o non più in grado di combattere (altre centinaia di migliaia di uomini nei corpi di ordine pubblico avrebbero bisogno di addestramento per andare in guerra).
Putin ha commesso errori grossolani in inverno ma nessuna delle sue mosse attuali, purtroppo, appare casuale. I missili sui supermercati o sui palazzi a Kiev, a Kramatorsk o Odessa servono a terrorizzare i civili, ma anche ad alzare il costo psicologico (e assicurativo) per governi e imprese occidentali che promettono di ricostruire l’Ucraina. La russificazione dei territori occupati prelude a un tentativo di annessione dal perverso valore legale: per Mosca, ogni controffensiva nel Donbass diventerebbe a quel punto un attacco al territorio della Russia stessa e come tale chiamerebbe in causa la dottrina della deterrenza nucleare.
Anche il Cremlino sta pagando un prezzo elevato, naturalmente: alcuni effetti delle sanzioni occidentali iniziano a diventare evidenti. La produzione di auto in Russia è crollata del 97%, i prestiti fra banche russe del 27%. Ma forse il momento della catastrofe economica russa non sarà per domani. Un veterano dell’industria petrolifera di Mosca di recente riparato all’estero, Sergei Vakulenko, ha spiegato al Corriere che il tempo è il fattore essenziale nella guerra economica fra Russia e Europa. Nel breve periodo la logica di Putin conduce a ridurre al minimo le forniture di gas agli europei in modo da generare inflazione, razionamenti in inverno, dunque ostilità nell’opinione pubblica verso i politici se questi ultimi sostengono l’Ucraina. Non è un caso se il governo francese ha presentato un progetto di legge che gli permette di requisire le centrali a gas in caso di emergenza. Nello stesso scenario, a Berlino si riesuma a una norma del 1960 per permettere al governo di prendere il controllo di tutta l’industria nazionale e decidere quali settori devono rallentare o fermarsi. La questione di come gestire eventuali crisi di fornitura dei prossimi mesi si porrà dunque anche in Italia.
Solo nel giro di uno o due anni il rapporto di forze si rovescia.
L’Europa sostituirà il gas russo. E la carenza di componenti industriali indotta dalle sanzioni farà sì che il tempo inizi a giocare contro Mosca, infliggendo seri danni al suo sistema produttivo. Lo scorrere della sabbia nella clessidra gioca dunque per Putin nei prossimi nove o dieci mesi, contro di lui dopo. È in queste condizioni che i governi europei devono rispondere alla domanda oggi più scomoda: davvero pensano che solo Volodymyr Zelensky abbia diritto di affrontare la questione del quando e come perseguire un cessate il fuoco? Mario Draghi giorni fa così ha riassunto la posizione del G7: «Se ci fosse una disponibilità ai negoziati, siamo pronti». Sembra chiaro che sarà difficilissimo recuperare i territori già finiti sotto il controllo russo e illudersi di poterlo fare, adesso, potrebbe non portare che altro sangue. Sembra altrettanto chiaro che riconoscerne oggi la conquista non farà altro che dar tempo e motivazione per Putin di preparare nuove aggressioni domani. Fra queste due proposizioni difficilmente confutabili, ma incompatibili, si delinea la missione più dura per gli europei nei prossimi mesi e anni: tenere stretta l’adozione delle sanzioni, isolare la Russia fino a renderle insopportabile il costo delle sue scelte. Eppure la voglia di tornare al business as usual è dietro l’angolo: Draghi è il solo leader europeo ad aver detto che il suo Paese non comprerà più energia russa, finché Putin resta al Cremlino.
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